Salviamoci la vita uscendo dall’abitacolo mentale

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Foto M. B. Fashion

Facile dissertare di massimi sistemi guardandoli attraverso le fette di salame di certe prospettive statistiche, o grafici, o strategie politiche fatte di tempi, attese, scadenze. Assai più difficile riconsiderare le medesime cose, identiche, proprio quelle lì, nel momento in cui incrociano vista, tatto, udito, olfatto, insomma ci toccano direttamente nelle nostre abitudini, inclinazioni, pur legittimi bisogni. Uno dei casi più noti è quello dell’alimentazione, ovvero la cosa che immediatamente non solo fa la differenza tra la vita e la morte di noi e di tutti gli altri, ma sta in fondo alla base di una delle più incredibili e pervasive filiere del nostro sviluppo umano e culturale, oltre che economico ovviamente. Ci sono cibi specifici, o intere famiglie di alimenti (la carne rossa per fare un solo esempio) di cui ormai chilometri cubi di studi dimostrano inequivocabilmente gli effetti dannosi su salute, ambiente, società, emissioni che scaldano il pianeta e via dicendo. Ma davanti a quel piatto più o meno fumante, attorno all’incredibile sistema che si porta appresso in termini di relazioni, abitudini, salta tutta la nostra capacità (individuale e collettiva) di ragionare e comportarsi coerentemente con le tabelle inequivocabili di cui sopra. E alla filiera dell’alimentazione se ne possono aggiungere tante altre, a partire da quella dell’energia, e questa a partire dal feticcio novecentesco per antonomasia, l’automobile.

La madre di tutti i vizi

Dell’automobile e di come abbia cambiato il mondo e la nostra vita, organizzandola attorno a sé stessa, si è detto tantissimo. Ma forse non si riflette a sufficienza sull’incredibile filiera dentro cui si inserisce, e che a ben vedere ne precede l’esistenza, e cioè una organizzazione del territorio che già ai primordi dell’industrializzazione inizia a vedere le possibilità di trasporto come un centro nevralgico del sistema. Trasporto di materie prime verso le industrie che le lavorano, trasporto di prodotti finiti verso i mercati, ma solo limitatamente trasporto di persone, che finisce invece per esplodere nel XX secolo con l’automobilismo e la sua versione di massa. Sono molti i critici di questo ruolo centrale e artificioso della mobilità automobilistica nel plasmare territorio, stili di vita, economie e tempi. Ci si chiede, molto sinteticamente: ma non sarà che porre l’enfasi su quant’è bello facile e veloce spostarsi, significa non volere guardare le cose da un’altra prospettiva, probabilmente più giusta? Ovvero, non sarebbe assai meglio, più intelligente, usare la mobilità quando non c’è la soluzione alternativa più ovvia, ovvero di realizzare le funzioni già vicine l’una all’altra? Perché è così che accade, seguendo sia la logica della specializzazione che quella della centralità dei trasporti. Fino a quel modello di esistenza a cui in fondo siamo piuttosto abituati tutti, ma che in realtà rasenta la demenza: l’auto come prolungamento dell’individuo, in cui si passano porzioni enormi del tempo, per andare da un posto all’altro, mentre se ne potrebbe fare tranquillamente a meno.

Ammettere la dipendenza è il primo passo per uscirne

Quando qualcuno prova timidamente a dirci prendete il mezzo pubblico, andate a piedi o in bicicletta, non trova mai troppa gente che gli dia retta, e per un motivo semplice, anzi due. Il secondo è la nostra dipendenza, fisica e mentale, dall’oggetto e dalla sua filiera, l’aver da troppo tempo regolato l’orologio biologico e la sequenza dei gesti su quella scatola a motore. Il primo, e assai più importante, è che magari in ottima fede e con fantastiche intenzioni, chi ci invita a cambiare abitudini non sa esattamente cosa ci sta chiedendo, ovvero guarda la nostra vita come se fosse semplicissima, e invece non lo è affatto. Tutto quel mondo soggettivo dei nostri tempi ritmi e bisogni, insomma, si poggia anche su un universo oggettivo di spazi, strutture, esattamente come un’offerta modellata sulla domanda: finché non si coglie questa serie concatenata di aspetti, non si capisce nulla e nulla si combina di buono. Il problema va afferrato per le corna, o per il manico se si vuole dare un’altra definizione, ovvero tenendo ben presenti entrambi gli aspetti, e non affettando la vita delle persone in modo fantasioso. Come successo con l’ultima legge sul contenimento delle emissioni in California, che ovviamente individuava nelle quantità di benzina bruciata la chiave di tutto, e la loro riduzione drastica l’obiettivo. Obiettivo sinora fallito, perché nell’equazione non si sono introdotti gli infiniti fattori dello «stile di vita automobilistico» che per le masse, da generazioni, vuol dire vita e basta. Finché si farà così, non si va proprio da nessuna parte, e ci suicideremo allegramente, con buona pace di quelli che «prendete il mezzo pubblico».

Riferimenti:

Ben Adler, How California’s sprawl got in the way of a strong climate bill, Grist, 17 settembre 2015

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