Scenari di esaurimento della superficie calpestabile sotto i piedi

foto M. B. Cook

Quando si parla di degrado ambientale le immagini che spontaneamente si presentano sono quelle di fiumi inquinati, nuvole di fumi puzzolenti, specie animali e vegetali estinte o a rischio, ecatombi sanitarie e sociali. Acque dove non si può più pescare, nuotare, e figuriamoci bere o irrigare, e irrigare campi già compromessi da urbanizzazione e inquinanti chimici, oltre che dagli enormi squilibri dell’altra forma di meta-inquinamento superiore del cambiamento climatico. A volte scorrere le sole statistiche degli ecosistemi minacciati o già obliterati, delle specie ormai sparite da enormi regioni in cui erano essenziali per gli equilibri ambientali, dà davvero i brividi. E nell’epoca in cui tutti gli studi e ricerche ci parlano del processo di urbanizzazione planetaria parrebbe abbastanza ovvio immaginarsi l’equazione, tra questa urbanizzazione e la catastrofe accennata, se non fosse che in effetti le cose non stanno proprio precisamente così. Occorre preventivamente capire di cosa si parli, quando si parla di urbanizzazione: quel processo che, non dimentichiamolo, coincide con ciò che chiamiamo civiltà, e come ci ricorda per esempio l’inventore del concetto di vertical farm, Dickson Despommier, coincide in pratica con la stanzialità degli insediamenti, l’invenzione dell’agricoltura, … e il degrado ambientale indotto dall’uso sconsiderato di alcune tecniche.

Urbanizzare

Già: che vuol dire, fuori dalle concezioni necessariamente anguste del capomastro o del suo referente politico-economico, urbanizzare? Significa piegare alle esigenze contingenti umane, usando alcune conoscenze, teorie, tecniche, un territorio più o meno vasto, che si sfrutta sia come superficie meccanica per appoggiarci i contenitori chiusi delle funzioni individuali e collettive, sia nelle risorse base di aria, acqua, suolo, energia. Certamente qui occorre subito distinguere la vera e propria urbanizzazione dalla pura episodica presenza-traccia umana, ma ci vengono qui in soccorso critico certe immagini sette-ottocentesche che almeno per la fase industriale marcano proprio il passaggio dalla città come luogo circoscritto a qualcosa più simile al flusso di espansione continua che arriverà a caratterizzare la nostra epoca. Ci sono quadri emblematici, addirittura antenati delle vignette umoristiche, che con l’idea di raffigurare situazioni buffe o imbarazzanti ci mostrano questa forma di urbanizzazione strisciante: la strada, i binari della ferrovia magari col treno che arriva in lontananza, le carrozze stracariche di personaggi caratteristici. E lì accanto a titolo di contrasto la natura che inizia ad essere violata, addomesticata, mutata così come lo spirito dei contadini che osservano perplessi o disgustati quei simboli di perversione. Ma insieme al problema arriva anche la soluzione, nella forma di quell’antico concetto di spazio intermedio o di decompressione che il diciannovesimo secolo ribattezzerà Green Belt, fascia verde, modernizzando l’antica veduta dagli spalti militari della città compatta ancien régime. Che sta a significare però anche un cambiamento più profondo.

Terre versatili

Basta pensare a come cambia e si articola velocemente quell’idea del «margine tra natura e artificio» prima intuitiva e poco più, arricchendosi di contenuti scientifici, urbani, sociali. Il primo è quello ancora ricco di strascichi tradizionali, del parco vero e proprio, cioè di una natura ancora naturale ma addomesticata per le esigenze umane di respiro, sosta sicura e pace, pura contemplazione. Ma invece di essere dentro, la città compatta degli edifici, questo parco sarà ora invece, della città e della sua crescita continua. La seconda articolazione concettuale è quella di usare la produzione agricola, e le varie tecniche e colture in cui la si può articolare, per arricchire l’idea di parco, e allargarne l’ambito territoriale. La terza, che somma le prime due aggiungendoci fattori sociali e sanitari determinanti, è quella di mescolare le due fruizioni produttiva e di loisir con altre esigenze che, integrate là dentro, cambiano forma e sostanza, e ci portano per esempio all’idea complessa e contemporanea di infrastruttura verde e parco territoriale di connessione. Rafforzando l’idea di base ben riassunta dalla classificazione (esclusivamente agricola) di Terreno Versatile derivante dal concetto di fertilità e già alla base dei piani di sviluppo tradizionali, secondo cui si costruisce di più là dove cala la versatilità, per ragioni facilmente intuibili. Versatile è in sostanza una superficie dove si possono produrre molte e molto diversificate cose per il mercato urbano: allarghiamo l’idea alla «produzione di servizi socio-ambientali», senza nulla perdere in termini alimentari né economici, ed avremo trovato una solida idea di base per ogni Green Belt o Green Wedge, o Greenway, o Urban Growth Boundary presente e futura.

Riferimenti:
New Zealand’s environmental reporting series: Environment Aotearoa 2019 (pdf scaricabile nella pagina; il paragrafo specifico sulla espansione urbana e i Terreni Versatili è il 3, da pag.40)

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