Se la «classe creativa» non crea un accidente

Foto J.B. Gatherer

C’erano una volta il tempio e/o il castello: una cosa che spesso senza farci gran caso confondiamo con la città, ma in realtà il vero discrimine fra tradizione e progresso, almeno se il progresso lo leggiamo in senso progressista come si direbbe oggi. Perché tempio e castello sono un luogo di potere chiuso ed esclusivo, mentre quanto inizia a crescer loro attorno e via via a distinguersene vistosamente, man mano aumenta di importanza relativa, si alimenta di aperture e scambi, si allarga senza opprimere, o almeno senza avere quegli aspetti come fondativi e irrinunciabili. Che anche la città murata premoderna esista in quanto luogo e nodo di scambi sia con le altre città che con il proprio contado, ce lo ricorda per esempio Adam Smith nel suo Wealth of Nations, e se in una certa misura dentro quei confini o quelle mura tende a stabilirsi qualche forma di élite, si tratta pur sempre di una specie di avanguardia di diritti comportamenti (e poi consumi, conoscenze …) per propria natura propensi ad allargarsi ed estendersi. Verticalmente tra le fasce sociali urbane, orizzontalmente sul territorio anche verso le campagne «arretrate». Il fatto che l’aria della città rende liberi non va quindi interpretato come un privilegio acquistato insediandosi entro i suoi confini, ma uno status acquisito grazie all’ambiente favorevole, e poi gradualmente comunicabile. Almeno se vogliamo continuare a distinguere la logica del tempio/castello da quella del borgo.

Gated gentry

Come sappiamo, la curiosità del termine gentrification è il suo trarre origine da gentry, ovvero la parola in genere riferita alla classe dei possidenti terrieri di campagna. E c’è qualcosa di tremendamente antiurbano, se non proprio caratteristicamente campagnolo, nei processi di brutale sostituzione sociale così come si stanno delineando da diversi anni, diversi sia dal fenomeno piccolo-borghese che Ruth Glass individuò per la prima volta negli anni ’60, sia dal cugino prossimo degli sventramenti otto-novecenteschi, che tanto spesso vengono evocati per via della radicale sostituzione anche edilizio-urbanistica. Ci sono due sintomi che combinati forse riescono a dare meglio l’idea di cosa sta avvenendo: il tipo insediativo, e la natura pervasiva del fenomeno. Per il primo sintomo la migliore ricostruzione sta forse negli studi, ormai numerosi, sulla cosiddetta privatizzazione dello spazio pubblico, attuata attraverso barriere sia fisiche che altri filtri, dalle vere e proprie gated community spuntate nel fitto tessuto delle città, a riprodurre l’orrendo modello scizzinosamente securitario suburbano, ad altre tipologie come il Business Improvement District, che invece dei muri (proibiti dalle norme cittadine) usa per circondare i quartieri commerciali gli sbarramenti delle guardie, delle telecamere, della minaccia visiva di colori o arredi esplicitamente «proprietari». Il secondo fenomeno, della pervasività o pura dimensione fisica della gentrification attuale, è apparentemente quantitativo, ma cambia la qualità urbana sino a cancellarla quasi del tutto.

Il ritorno del castello nobiliare

Perché quando la logica dello zoning sociale conseguente all’uso meccanico di quello urbanistico diventa generalizzata, dal suburbio dentro le città si importa in forma estesa anche l’omogeneità sociale, interrotta solo ed eventualmente da quelle allarmanti forme di «capitalismo compassionevole» che si chiamano via via inclusionary zoning, oppure nella versione più esplicita di quella «porta dei poveri» destinata agli assegnatari degli alloggi a canone moderato dentro i complessi a prezzi di mercato. Accade allora una vera e propria transustanziazione sia dell’antica idea di città macchina per far quattrini, sia della più recente tendenza alla lettura di tutti i fenomeni con la lente contabile, ridotti a tabelle di bilancio (dove ovviamente si inserisce quel che pare ai comodi del lettore). Enormi settori urbani di fatto desertificati dal punto di vista sociale e delle relazioni, così come delle attività produttive, degli scambi, spesso con giganteschi «vuoti di senso» immobiliari negli alloggi e altri spazi invenduti o non affittati, o non occupati da proprietari disinteressati, esattamente come avveniva nelle campagne degli absentee owners latifondisti, magari in attesa di qualche colpo grosso finanziario. Il tutto nascosto sotto la patina luccicante di una gioventù mantenuta e indebitamente classificata creative class quando invece non crea un bel niente, se non il proprio sollazzo da basso impero, in attesa dei barbari alle porte. E in fondo non ha tutti i torti chi, pur scambiando sintomi collaterali per la malattia, da una prospettiva moralista e conservatrice osserva che «Al giorno d’oggi pare che il rito del brunch domenicale abbia sostituito la funzione religiosa, col Bloody Mary al pomodoro a fungere da Sangue di Cristo». Un po’ fanatici, ma efficaci nello stigmatizzare un fenomeno indotto dalla pazzia dei «cugini» neoliberali.

Riferimenti:
Addison Del Mastro, What the D.C. Brunch Says About Young Urban Elite, The American Conservative, 5 ottobre 2017

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