Sicurezza in bici: problemi di metodo e di contesto

Foto F. Bottini

Il culto esoterico del cordolo pare più pervasivo di quelle tenaci erbacce che dentro i cordoli ci prosperano allegramente e nonostante tutti i programmi di diserbo fisico-chimico del mondo. E a differenza di quelle innocenti portulaca o San Carlino artemisia vulgaris, il culto del cordolo sa presentarsi in raffinatissime forme cangianti. Del resto pare anche intuitivo, che quando si parla di sicurezza e affidabilità, la risposta più scontata e spontanea possa e debba essere lineare: arginiamo il rischio col metodo più tosto e sperimentato di una solida barriera in pietra, comoda versione tascabile e tecnicamente replicabile di tutte le generazioni di muraglie della storia. Ma forse, proprio come accaduto per le antenate e massicce muraglie storiche, dopo l’avvento dell’artiglieria, della guerra di movimento, dell’aviazione e dei missili, sarebbe il caso di riflettere su una riconversione o obliterazione definitiva di questo simulacro in granito-cemento, e comunque a un suo uso meno automatico o addirittura obbligato dai regolamenti. Si diceva che è soprattutto l’idea, la filosofia, del cordolo ad essere pervasiva, non tanto la sua concrezione fisica, abbastanza innocua di per sé, quando non deriva da una filosofia di segregazione ermetica di un universo rispetto a un altro. In campo urbanistico e trasportistico questo ha creato e continua a creare giganteschi problemi, spesso più di quanti non ne risolva (sono molto pochi, quelli effettivamente risolti in quel modo).

In principio non c’era la segregazione

Torniamo per un istante alle origini sociali di quella camera di decompressione tra individuo e società detta «quartiere», così come si veniva definendo a cavallo tra XIX e XX secolo. Le sue forme e dimensioni vengono via via definite, attraverso sperimentazioni consapevoli e studi teorico-empirici sul territorio, individuando uno spazio tipo che somma identità e sicurezza, quel genere di «casa allargata» dentro cui si sta a proprio agio nelle relazioni un po’ più larghe e articolate di quelle del nucleo familiare dentro l’alloggio privato, ma decisamente più contenute rispetto a quelle propriamente urbane. È in poche battute il posto dove «non si perde neanche un bambino», dove si sta sicuri e tranquilli senza alcun bisogno di creare muraglie, almeno finché non entra in campo la segregazione funzionale e dei flussi di tipo ingegneristico, quella che meccanicamente separa le cose una dall’altra perché quello pare in metodo più efficiente e «razionale» per gestirle. Solo sovrapponendo il progetto razionalista all’idea già sostanzialmente e socialmente definita della neighborhood unit, si ottiene quello spazio poi diventato un modello che vede una sua prima perimetrazione fatta proprio di cordoli ideali, costituiti dalle arterie di grande comunicazione, che contengono ma segregano. Il criterio verrò poi esteso anche al resto dei flussi per via della pervasività dell’automobilismo di massa, e applicato pari pari ai percorsi ciclabili e in parte a quelli pedonali, comprese in un primo tempo complicatissime reti di sovra e sotto passaggi dedicati. In questo contesto si afferma che la mobilità dolce, di piccolo cabotaggio, debba automaticamente svilupparsi dentro reti specializzate, dedicate, cordolate perché unica e specifica forma di sicurezza affidabile.

Le «culture ciclistiche nordiche»

Quando tutto il mondo cosiddetto industrializzato occidentale si accorge che per molti decenni si è lasciata plasmare la circolazione, la città, l’intero sistema di relazioni e abitare, attorno all’automobile, corre ai ripari e lo fa imboccando spontaneamente la strada più breve. Ovvero cercando modelli alternativi, buone pratiche di riferimento da cui quantomeno partire senza dover costruire ogni cosa da zero: il ciclismo sembra ottimo da questo punto di vista, e ci sono le cosiddette culture ciclistiche urbane del Nord Europa da cui attingere. Se l’hanno fatto loro, facciamolo anche noi, pare ovvio, lineare, semplice, funziona lì e funzionerà con qualche aggiustamento anche qui. Ma c’è un dubbio grosso come una città, e non riguarda certo il contesto culturale, di quelle esperienze nordiche così riuscite, dove quote rilevanti della mobilità quotidiana per lavoro e altri motivi si appoggiano alla bicicletta e alle relative reti dedicate. Quel dubbio riguarda, vedi un po’, esattamente l’arco storico in cui si sono sviluppate quelle modalità, che corrisponde al trionfo normativo e tecnico-istituzionale del razionalismo, inteso come segregazione funzionale e dei flussi in primo luogo. La pista ciclabile in sede propria, sviluppata ovunque, sia parallela alla carreggiata che lontano da essa se possibile o opportuno, e a coprire ogni itinerario, nasce e cresce cioè inserita dentro quelle medesime formazioni urbane composte di neighborhood unit razionaliste perimetrate, grandi arterie di scorrimento veicolare, funzioni relativamente segregate, e magari anche tempi e ritmi (il pendolarismo, l’ora di punta) classici della città industriale. E quindi, prima di guardare con invidia al 20% o 30% o 50% di spostamenti in bici quotidiani di una città danese o olandese, e sognare di riprodurne le politiche altrove, forse riflettere anche su questi aspetti non farebbe male: cosa direste, poniamo, a un architetto che venisse a proporvi di realizzare a fotocopia conforme un quartierone razionalista anni ’30 in una nostra periferia del terzo millennio? Pensereste che ha bisogno di un bravo strizzacervelli, naturalmente. E non si capisce invece perché l’altra fetta di corrispondente cultura della città, quella legata alla bicicletta debba invece essere comprata a scatola chiusa. Meditate, gente, meditate.

Riferimenti:
Klaus Bondam, What all urban planners should be asked: would you let your child cycle here? The Guardian (Bike Blog) 15 giugno 2017

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