Urbana o suburbana, sempre segregazione resta

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Foto F. Bottini

Come insegnano l’esperienza e le letture, quando si sente la parola riqualificazione è sempre meglio rizzare le antenne, perché le qualità da reinserire o inserire ex novo cascano puntualmente dal cielo, come se il passato non insegnasse nulla. Una volta c’era la fuga di tutto quanto dalla città brutta e cattiva, qualunque funzione pareva schifare un posto classificato come marcio e orrido a prescindere già dai disegnini dell’asilo. Se ne andavano ovviamente e vistosamente le residenze del ceto medio, verso periferie di fascia più o meno esterna, poi le attività terziarie e direzionali dove questo ceto medio lavorava in prevalenza e relativi servizi commerciali, per il tempo libero e lo sport. Alla fine se ne andavano, senza troppo clamore ma rilevati via via vistosamente da preziosi studi, anche quei ceti popolari o immigrati che la fuga precedente aveva lasciato soli dentro quartieri abbandonati a sé stessi o all’arbitrio di qualche intervento strampalato quanto occasionale per migliorarne vagamente l’abitabilità, senza troppo successo. Parallelamente iniziavano a manifestarsi però tendenze opposte, spinte anche da una constatazione ovvia: perché mai buttar via infrastrutture, immaginario, identità accumulate per decenni, andando a cacciarsi in uno sfigatissimo per quanto lucido quartiere suburbano fotocopia? Era nata la riqualificazione contemporanea, coi suoi profeti a cantori.

Creativi per arrangiarsi

Tra i più noti propagandisti di questa ricolonizzazione dell’ambiente urbano, che di fatto aveva continuato ad avvenire secondo criteri spontanei con il classico insediamento di figure singolari come artisti e simili, ci sono Richard Florida con la sua teoria della classe creativa, e i complementari architetti new urbanism coi loro schizzi di ambienti ripuliti e resi meno arcigni da qualche piccolo intervento superficiale. Ma i veri soggetti del processo di massa, ben oltre la figura un po’ inventata del creativo tecnologico o piccolo mago della finanza vestiti obbligatoriamente casual, sono i giovani della generazione nativa digitale e precaria, i cosiddetti Millennials. Per i quali hanno iniziato prima a muoversi alcuni costruttori e immobiliaristi, seguiti da certe amministrazioni cittadine convinte di aiutare processi virtuosi di riqualificazione. In pratica, ci si è attivati per mettere a disposizione di questa nuova domanda un’offerta di strani spazi, la cui accessibilità economica e relativa abitabilità è data dalla somma di due fattori: appartamenti microscopici, e grande adattabilità dei giovani.

Il mercato è pur sempre il mercato

Imperversa ormai da anni la discussione su cosa sia classificabile come gentrification, e cosa invece come vera riqualificazione. Un dibattito acceso e ideologico, al punto che ne esiste un altro, parallelo, che prova a spogliare del tutto la parola gentrification da qualsiasi connotato negativo, in modo tale da automaticamente smussare anche le critiche più fondate: la trasformazione è cosa buona anzi ottima, sempre, salvo prova evidentemente contraria, insomma. Ma come verificano ormai infiniti studi, quello che invece sta accadendo è che da un lato gli ex quartieri complessi si stanno via via appiattendo su questo genere di offerta standard, mentre le ex fasce di popolazione a redditi medie medio bassi vengono espulse verso i suburbi, magari andando ad occupare alcune nicchie lasciate disponibili dai genitori dei Millennials, che senza più famiglia hanno deciso di trasferirsi in altri quartieri urbani gentrificati ad hoc. E viene proprio voglia di domandare, a tutte le amministrazioni che promuovono questo genere di micidiale sostituzione sociale, se non si rendano conto della bomba che stanno innescando: una suburbanizzazione densificata della città, e nella dispersione suburbana, lontani dai servizi, dai trasporti pubblici, da tutto, i redditi medio bassi, probabilmente destinati a scendere ancora di livello man mano si perderanno i posti di lavoro un tempo molto più a portata di mano dai quartieri urbani. Insomma, forse, investire sui giovani vorrebbe dire costruirgli un mondo diverso da quella specie di labirinto da laboratorio, di spazio segregato, da cui magari proveranno a evadere in modi non previsti dagli apprendisti stregoni delle politiche urbane liberiste.

Riferimenti:

Joe Cortright, The young and restless and the Nation’s cities, rapporto ottobre 2014 [il link scarica direttamente il pdf dal sito City Observatory

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