Chiedere «meno cemento» è urbanistica progressista?

Foto J.B. Hunter

Buona parte delle battaglie locali di comitati e associazioni di abitanti ha l’obiettivo di impedire o ridurre le trasformazioni edilizie, intese come quantità di metri quadrati e metri cubi destinati a funzioni urbane. Anche buona parte delle motivazioni specifiche addotte da questi gruppi si può riassumere nella «conservazione della qualità» del quartiere, o zona, o settore urbano. Una qualità che coincide con uno status quo o una potenzialità che le trasformazioni farebbero venir meno, e che può variamente assumere connotati sociali, di relazione, ambientali, sanitari. Ma che inevitabilmente si persegue con quel «basta cemento» o al massimo «meno cemento». C’è però una questione di fondo, sollevata loro malgrado dai faziosissimi liberisti quando affermano la loro surreale equazione tra urbanistica e nimbismo, che impedirebbe di «risolvere il problema della casa»: quella difesa dell’identità, della qualità, della soggettiva abitabilità, ha davvero a che fare con ambiente, progresso, insomma con una qualsivoglia idea civica diversa dal puro lobbismo egoistico fine a sé stesso? Si tratta di stabilire se e quanto quel contrasto frontale alle trasformazioni locali sia sintomo e parte di una idea di città (condivisibile o meno è altro discorso), oppure come accusano i neoliberali puro esercizio di potere arcaico, da animale che ha marcato il territorio e non intende farci passare nessuno ritenendolo proprio.

Più denso, che cosa?

La cosa vale oggi soprattutto quando si parla di densificazione, termine che come tanti altri si presta a interpretazioni di senso piuttosto contraddittorie. Per esempio: a che scala la si deve considerare, politicamente parlando, per definirla davvero tale? E si deve applicare ai puri volumi edificati, alle superfici, alle attività, alla popolazione, ad altro? L’interpretazione minimalista – e sostanzialmente ideologica – che va per la maggiore è quella di progetto anziché di piano o programma, ovvero tale da scatenare esattamente la peggiore reazione nimby di rifiuto. Possiamo chiamarla «da architetti» anche perché con quel linguaggio si esprime e cerca consensi: le prospettive di quei nuovi quartieri piuttosto autoreferenziali dove lo spazio pubblico si scambia con la sovrapposizione in verticale dei volumi in classici grattacieli o comunque torri multipiano. E però al tempo stesso questa immagine ci dice anche un’altra cosa meno immediata, ovvero che si tratta, si può trattare, davvero di un problema da architetti, di una questione risolvibile nell’ambito del progetto di architettura e del suo rapporto con la città, salvo che quella traduzione in pratica del piano-programma non pretenda induttivamente di condizionarlo e addirittura fissarne le regole a proprio piacimento (come di fatto avveniva quando a cavallo di metà ‘900 era la scala di quartiere a dettare il piano urbanistico).

Invarianti

L’approccio protestatario-reazionario contro le trasformazioni che altererebbero l’identità dei luoghi e la loro abitabilità (in sostanza modificando i valori d’uso e molte volte anche quelli immobiliari) a suo modo è una specie di progetto architettonico fai-da-te improprio e sbagliato perché redatto da incompetenti, senza tenere conto di una idea di città più ampia come quella che dovrebbe essere espressa da un piano-programma. Ma i contenuti di questo piano programma per contrastare sia l’ostruzionismo conservazionista che il «libero mercato» del soggetto più forte promosso dai neoliberali antiurbanistici, probabilmente dovrebbero superare la centralità spaziale fisica del piano-progetto tradizionale, incorporando organicamente come proprie basi obiettivi socio-sanitari, ambientali, prestazionali e di flusso che da sempre sono considerati o impliciti, o complementari, o collaterali ma autonomi. Basta pensare alla tradizionale e accettata da tutti separazione tra piano urbanistico in senso stretto e piani dei trasporti, che solo in alcune leggi statali americane entrano insieme nel medesimo documento, e con prescrittività differenziata. E lo stesso vale per altri aspetti come emissioni, impronta ecologica, o servizi sociali, alla persona culturali. Se in qualche modo tutto questo costituisse la base e l’obiettivo indispensabile-verificabile di un piano, o meglio di vari piani gerarchicamente articolati su varie scale territoriali, anche la famigerata densificazione finirebbe per apparire quello che è: uno strumento interpretabile in quanto tale dal progettista, e criticabile per la qualità di questa interpretazione, non in termini di principio.

Riferimenti:
Liam Dillon, After decades of suburban sprawl, San Diego eyes big shift to dense development, Los Angeles Times, 25 febbraio 2019

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