Consumisti coatti di territorio

Foto M. B. Fashion

I bisogni istintivi sono una cosa, e il modo in cui proviamo a soddisfarli un’altra, per non parlare poi del modo in cui alla fine li soddisfiamo davvero, in genere assai parzialmente e aprendo nuovi problemi e bisogni. Cioè rendendoci conto pur in modo confuso di quanto abbiamo sbagliato il tentativo originario. Ma se per alcuni bisogni elementari e immediati la constatazione pare abbastanza a portata di mano, per altri più complessi e compositi il ragionamento si fa a volte intricato, contraddittorio, e finisce per scivolare nella pura ideologia, che è in sostanza il vero motore della nostra crescita basata sull’espansione infinita dei consumi. Un esempio del primo caso potrebbero essere, emblematicamente, gli immediati portati socio sanitari del cedere ai bisogni alimentari in modo troppo istintivo: si arraffa «qualcosa di buono» dimenticandosi di quanti condizionamenti ci stanno pilotando, ma subito la contraddizione esplode sotto forma di ciccia, brufoli, secchezza delle fauci, nausea, elastici che tirano, fidanzati che mollano. Ovvero abbiamo dato una risposta sbagliata, e sbaglieremmo ancora inoltrandoci ancora di più sul medesimo sentiero, per esempio comprando farmaci, o costosi attrezzi da ginnastica, ma scoprendo poi che anche lì ci sono effetti collaterali … La risposta vera sta nel riflettere su cosa fosse, quel bisogno istintivo, e riprovarci.

Globalmente rimbecilliti dalla pubblicità

Se pensiamo ai consumi come a una «idea della vita» (in fondo quel che ci provano a vendere sin dall’infanzia con gli spot nei cartoni animati della Peppa Pig d’epoca) forse si può estendere come metodo l’esempio alimentare semplice, a quell’intreccio di consumi complesso e intricato che chiamiamo abitare, lavorare, riposarci, divertirci eccetera. Ovvero all’idea di città, società, ambiente realistici, che ci aspettiamo e auspichiamo, magari rivendichiamo se siamo tipi così, pretendiamo dalla politica, adottiamo come linea se siamo politici noi stessi dalla parte delle decisioni. Il bisogno del «riparo» per sé e l’eventuale famiglia, ridotto all’osso è del tutto analogo al languorino dell’appetito: si tratta poi di procedere molto cautamente a dissezionarne le parti aggiunte, trattandole una per una senza perdere di vista il quadro generale, e magari finiamo per capirci qualcosa. Vivendo in un sistema di mercato, anche al netto di tutto ciò che non va non ci piace eccetera, la prima grande distinzione da fare è quella tra domanda e offerta, ovvero tra cosa chiediamo e cosa ci viene proposto, in cambio di cos’altro, che siano soldi, tempo, fatica, rinuncia a una cosa per averne un’altra e via dicendo. È qui che, partendo dagli snack low cost del languorino che però si traducono in ciccia superflua, si intravede qualcosa: la soluzione «ovvia» non è affatto tale se riduciamo tutto allo scambio monetario. Perché il «riparo che costa meno» non rivela affatto i suoi costi reali, i suoi virtuali brufoli e disturbi digestivi. Che fosse la risposta lineare ai nostri bisogni, ce lo diceva solo la pubblicità, falsa per definizione.

La frontiera dell’ignoto

Certo accostare la qualità relativa di un sacchetto di patatine unte da chiosco da pochi centesimi, con la casa e il quartiere per cui si fatica e si risparmia una vita intera, può apparire arduo, magari surreale, ma se ragioniamo in termini di bisogni, soddisfacimento, ideologia pubblicitaria e autolesionismo conformista, le cose si aggiustano. Il «mercato» ci confonde, e così come elaboriamo mentalmente il languorino, scegliendo di soddisfare il bisogno in modo intelligente (magari addirittura aspettando solo che il languorino passi) invece di arraffare lo snack virtualmente low cost, è impossibile e stupido semplicemente accostare i prezzi per unità di superficie di due alloggi, senza mettere nel conto l’infinità di altri fattori, monetari e non monetari. Solo per fare un esempio, il tempo necessario a fare le varie cose legate all’abitare, dal pendolarismo in giù, è tempo di lavoro sottratto alla vita, e andrebbe calcolato. Poi ci sono i brufoli virtuali veri e propri del non quantificabile stress distribuito su varie linee di consumo prodotti e servizi: cosa comporta stare in un posto, e cosa in un altro? Mistero, di solito, l’unico modo parrebbe quello di sperimentare di persona, ma tutti sappiamo che non si può fare la cavia e il ricercatore allo stesso tempo, si perde di obiettività. E allora è meglio dar retta a chi almeno in campi circoscritti ne sa molto più di noi, e ce lo racconta in modo chiaro, sistematico, criticabile certo, ma con giudizio. Come l’economista Justin Fox che su Bloomberg qui di seguito racconta l’ovvio: la «domanda di case suburbane» non è affatto una risposta ai bisogni di chi mette su famiglia e cerca alloggio, ma solo un regalo agli speculatori. Lui non la mette proprio così, ma basta leggere tra le righe per capire la solfa.

Riferimenti:
Justin Fox, The Return to Sprawl Is More About Supply Than Demand, Bloomberg, 23 maggio 2017

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