Densità urbana al netto degli architetti

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Foto J. B. Gatherer

È passata poco più di una generazione da quando, ancora, gran parte della letteratura fantascientifica si soffermava su marchingegni tecnologici, astronavi, o nel caso specifico dei futuri urbani soprattutto su torri smisurate e automobiline magari automatiche, magari volanti. Ma è almeno dai tempi della Tour Eiffel che queste sedicenti ipotesi di città futura lasciano rapidamente il tempo che trovano, visto che tutte evidentemente non tenevano conto della incredibile complessità, in grado di digerire modificare o ribaltare qualunque intenzione o previsione. Quindi nello stesso modo in cui giustamente sorridiamo dei dirigibili gonfiabili a pedali con cui si spostano fra le torri ottocentesche baffuti signori con le ghette, dovremmo imparare a prendere con le molle anche tutto il resto che si continua a produrre sino ad oggi. Anche quando (cosa un po’ più complicata in effetti) si presenta coi crismi della riflessione sistematica, scientifica, basata su metodi verificabili, ma in fondo non lo è perché non tiene conto di una quantità incredibile di variabili.

E giusto per restare alle immagini un po’ in stile Metropolis di Fritz Lang, quelle in pratica continuamente evocate dagli appassionati di luminosi (o catastrofici) futuri tecnologici, c’è il tema ricorrente di questi tempi della “densità”. Lo si rivede in tutte le salse, da strumento per garantire un minimo consumo di suolo, a unica scelta possibile per affrontare l’emergenza energetica o climatica o dei trasporti collettivi, a virtuoso complemento di sviluppo economico e innovazione grazie all’ammucchiarsi di intelligenze in poco spazio. Peccato che poi la declinazione concreta e spaziale del vago concetto da un lato prenda appunto le consuete forme della città dei grattacieli che conosciamo e un po’ detestiamo da un secolo, oppure sia oggetto di lunghe dissertazioni su cosa vuol dire, di solito per arrivare a conclusioni strampalate come il rilancio del modello suburbano (Los Angeles più densa di New York: si, ma in che senso scusi?). Insomma si finisce per tirare l’acqua al proprio mulino inventandosi chissà cosa.

Lo scrittore James Howard Kunstler si è spesso soffermato sull’idea di città futura secondo una falsariga di prevedibile e progressivo esaurimento della fonte energetica che da cent’anni condiziona tutta la nostra vita: il petrolio. Col risultato di un abbastanza credibile equilibrio tra il tipo di fantascienza positivista e quello catastrofico. Insomma niente torri scintillanti grazie all’energia solare, eolica, biodiesel, perché non ce n’è a sufficienza per replicare il modello petrolifero, ma neppure il medioevo dietro l’angolo, con le gilde dei mercanti e le leghe anseatiche collegate da barconi a vela e cavalli. E neppure, va detto, quel tipo di confusa nostalgia regressiva che proiettano spesso gli esperimenti Transition Town e simili.

La città del futuro non dovrebbe essere troppo grande: dove mettere se no le grandi aree agricole che le consentono di mangiare a km zero? Mica si campa di orticelli urbani sul tetto, di fianco al gabbiotto dell’ascensore. E anche gli ascensori, insieme a condizionatori e altre macchine dovranno avere un ruolo diverso: niente petrolio niente energia a buon mercato, niente possibilità di sprechi, come quelli che oggi ci paiono del tutto naturali. Destinate a cambiare in modo radicale, nelle forme e nelle relazioni con città e territorio, anche le infrastrutture oggi portanti come ad esempio le strade di grande comunicazione e tangenziali, gli aeroporti, i porti, e poi gli stili di vita e le gerarchie attuali. Lo abbiamo visto nel caso del passaggio dalla fase industriale a quella post-industriale, ma il cambiamento sarà ancora più netto, con riduzione e quasi scomparsa di fondamentali nodi attuali, e rafforzamento e sviluppo di altri siti favoriti dalla geografia delle risorse e dai modelli vincenti.

Le tendenze generali sviluppate nelle narrazioni di Kunstler, delineano sicuramente un processo a volte traumatico, a volte più graduale, e destinato comunque a costruire scenari cangianti, di cui forse già oggi possiamo individuare alcuni segnali. Uno è quello del ritorno in città, secondo processi diversi da quello un po’ caricaturale della gentrification improvvisa dei giovani talentosi che lavorano sul portatile nei caffè all’aperto guadagnando salari da favola, o al contrario dell’epopea migratoria di popolazioni rurali verso qualche slum di centinaia e centinaia di migliaia di abitanti. Ci sono infinite vie di mezzo, e del resto anche l’idea della megalopoli povera e delle campagne demograficamente desertificate a quanto pare fa a pugni col futuro post-petrolifero. Quindi bisogna guardare altrove.

Per esempio alla piccola ma costante trasformazione di certi spazi e stili di vita: pare che non sia più tanto automatico, per chi ha dei figli piccoli e può permetterselo, cercare una casa unifamiliare suburbana con giardino, e poi adottare le classiche abitudini di lungo pendolarismo, vita sociale che ruota esclusivamente attorno a famiglia e poco altro, frequentazione dei centri commerciali, dei parchi per uffici, classica grigliata del sabato sera. Oggi, in città si riesce a costruirsi una vita quotidiana anche compatibile coi figli che vanno alle elementari o all’asilo, e c’è addirittura qualcuno che fa il percorso opposto dopo aver verificato che il suburbio ha ben poco da offrire di alternativo. Manca il giardino privato? Niente paura, ci sono appunto i parchi pubblici ben più grandi e pieni di altre persone con cui socializzare se si desidera. È difficile girare in macchina? Spesso non è nemmeno necessario possederne una, così si risparmiano anche tanti soldi, e ci si posta coi mezzi pubblici, a piedi e in bicicletta, visto che in un quartiere urbano per le necessità di ogni giorno c’è tutto a portata di mano.

Per chi lavora da casa, e nel suburbio sarebbe costretto a lunghissimi periodi senza alcun rapporto umano diverso da quello dei componenti della famiglia (una specie di “idiotismo della vita rustica” postmoderno), il quartiere urbano risponde a tutte le necessità di relazione e stimolo indispensabili. Aggiungiamoci che la presenza di spazi pubblici e il modello più elastico di abitazione di città consentono anche di risparmiare un po’ sulla casa, e il gioco è fatto. Se certo non tutti stanno cedendo alla tentazione di sperimentare la vita cittadina, è comunque sicuro che si tratta di una tendenza in crescita, cosa confermata dal mercato e dalla vera e propria concorrenza che i due ambiti iniziano a farsi, ciascuno puntando sui propri vantaggi relativi. I criteri a qualunque latitudine sono più o meno gli stessi, con coefficiente di moltiplicazione dei costi/benefici nonché delle inclinazioni personali.

A cominciare dagli spostamenti pendolari, che nel suburbio in un modo o nell’altro risultano piuttosto lunghi, laboriosi, costosi, obbligatori, quasi esclusivamente con l’automobile. Mentre in città a volte non ci si deve spostare quasi per nulla, ma se si vuole usare l’auto ci i infila puntualmente in un ingorgo, o si paga una congestion tax, però se si è disposti a camminare o a prendere la bicicletta molte cose si possono risolvere. Poi ci sono il lavoro e lo studio, pendolarismo a parte: le occasioni, la possibilità di scelta, la qualità. Queste e altre alternative si traducono in costi monetari e/o vantaggi in termini di possibili risparmi, che in molti hanno provato a calcolare con risultati a volte sorprendenti nel rapporto reale fra reddito e stili di vita possibili.

Verso le città non si stanno spostando solo le persone, ma anche qualcosa di meno evidente e vistoso: sono elementi e modelli di vita un tempo caratteristici degli spazi rurali o naturali, e che si inseriscono in modo pianificato o meno fra edifici e strade. Lo sappiamo benissimo che lo stesso concetto di parco urbano è piuttosto nuovo, risale al XIX secolo quando emerge l’indispensabilità igienica e sociale di uno spazio non costruito, con alcune caratteristiche degli ambienti aperti esterni. Più recente la tendenza complessa, iniziata ad esempio con gli animali selvatici, mammiferi uccelli ecc., o proseguita con l’agricoltura urbana, a far assomigliare sempre più per molti versi città e campagna. Gli orti nelle abitazioni urbane ci sono sempre stati, ma come noto di recente hanno iniziato ad assumere un ruolo ambientale e non solo di primo piano.

Più articolato il ruolo dell’agricoltura, dagli impianti high-tech, idroponici o in serra, alle infrastrutture verdi di collegamento col territorio esterno. Ma c’è qualcosa di più sottile, che sviluppa certe intuizioni originarie della landscape architecture tradizionale, o della forestazione urbana. Se il parco privato dei pochi ricchi che potevano permetterselo era soprattutto un cosiddetto “luogo di delizie” con specie esotiche ornamentali, sorprese visive e giochi fantasiosi, col parco pubblico anche per motivi di costi inizia a imporsi una logica diversa, ad esempio con l’uso delle preesistenze, e degli alberi locali o rustici, adatti a prosperare con meno cure possibili. Sono spazi pensati per funzioni di massa, sfoghi collettivi, o anche scopi didattici: pensiamo che già nel Central Park di New York a metà del XIX secolo i progettisti Olmsted e Vaux proponevano un «vivaio dimostrativo delle specie autoctone americane». Una evoluzione simile oggi sta trasformando ancora l’idea di verde urbano, perché all’idea del verde pubblico si sommano sia l’aspetto didattico, sia il coinvolgimento dei cittadini, sia una nuova funzione complessa delle piante , sia infine un piccolo elemento della cultura chilometri zero. E alle conifere, aceri, pioppi eccetera, si sostituiscono in parte gli alberi da frutto: abbastanza ornamentali, fanno ombra, sono facili da mantenere, e coi frutti attirano altre forme viventi, gli uccelli innanzitutto. Poi i frutti si mangiano, e i bambini imparano a vederli trasformarsi, dal fiore alla pallina colorata pronta da consumare.

La città diventa sempre più complessa man mano si scopre che certe funzioni sono compatibili e auspicabili anche nei suoi spazi più densi, e nel suburbio cosa succede? Ahimè soprattutto decadenza, al giorno d’oggi, con interi quartieri realizzati speculando sui mutui subprime che sono restati vuoti a marcire, o comunque con un modello di vita che non è più considerato unanimemente il sogno americano per eccellenza. Sono ormai diverse le leggi degli stati Usa che mirano a una sorta di “urbanizzazione del suburbio”, come la SB375 della California, che imponendo un tetto massimo alle emissioni di gas serra spinge verso insediamenti più compatti, multifunzionali, organizzati anche attorno alle linee dei trasporti pubblici, fruibili a piedi o in bicicletta a scala di quartiere.

La crisi del suburbio si accompagna a quella del centro commerciale, ancora simbolo di questo stile di vita, surrogato di spazio collettivo a gestione privata, dove dominano la mobilità automobilistica e i consumi individuali. Sono sempre di più gli shopping mall dove si comincia a fare qualcosa di diverso dallo shopping, demolendo gli scatoloni e trasformando i parcheggi in pezzi di città, come suggeriscono i progettisti new urbanism, oppure affidandosi alla Provvidenza. Nel senso letterale della parola, visto che sono sempre più le chiese che trovano posto tra le ex navate dei consumi opulenti. Per chi non crede nella mano invisibile della divinità, c’è una sola scelta: una bella localizzazione urbana, che piace di sicuro a grandi e piccini.

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