Exeter, il Piano di Ricostruzione (1946) di Thomas Sharp

Nella Gran Bretagna del periodo immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale si intrecciano numerose idee di «ricostruzione». Quella più nota discende dal lavoro delle tre Commissioni di studio istituite verso la fine degli anni ’30 (sul decentramento industriale, l’esproprio per pubblica utilità, lo sviluppo agricolo) e sfocerà nella politica nazionale delle new town. Ma esistono molte altre tendenze, sia di carattere culturale urbanistico che di esigenza sociale che si intrecciano nel definire le modalità di ricostruzione del tessuto urbano nazionale. Va ricordato innanzitutto che il paese è almeno dal XIX secolo, a partire dalle reazioni sociali e politiche alla crisi dei grandi centri industriali, all’avanguardia nel movimento e nella legislazione sui piani regolatori. Dal primo decennio del ‘900 il Regno Unito si è dotato di una legge urbanistica e di una struttura di formazione, associazione studio rivolta alle persone che coltivano la disciplina a livello professionale, universitario, nella pubblica amministrazione.

A differenza di altre esperienze associative disciplinari, come ad esempio l’Istituto Nazionale di Urbanistica italiano, il britannico Royal Town Planning Institute rappresenta una convergenza delle varie professioni che definiscono la figura complessa del planner, principalmente: architetti, ingegneri, e surveyors. Tutte queste professioni però mantengono una relativa autonomia, soprattutto nella prima generazione di quelli che sono sostanzialmente i fondatori del modo moderno di pensare alle città, la generazione di Thomas Adams, di Patrick Abercrombie, di Thomas Sharp. Sharp di formazione è un surveyor, figura che unisce competenze catastali, topografiche, edilizie e di gestione. A volte traducibile in italiano con la parola, «geometra», il surveyor nel contesto britannico svolge un ruolo molto più complesso sulla città e il territorio. Per capire meglio il piano di ricostruzione di Exeter, forse è utile qualche cenno biografico sul suo estensore.

Nasce nel 1901 nella County Durham, zona carbonifera, da una famiglia modesta, e dopo un primo periodo di apprendistato come surveyor inizia a lavorare nelle prime amministrazioni pubbliche che si dotano di uffici urbanistici, e poi a Londra a collaborare con lo studio di Thomas Adams (amministratore della prima Città Giardino) e Longstreth Thompson. È fra i primi a superare l’ammissione ufficiale all’Istituto degli urbanisti a metà anni ‘20.

Segue un periodo molto articolato di lavoro nella libera professione, nella pubblica amministrazione, nell’insegnamento universitario. Pubblica molti libri, fra cui Town Planning, in edizione economica della Pelican del 1940 è il testo di urbanistica più venduto di tutti i tempi. Nella prima metà degli anni ’40 partecipa ad altissimo livello ai lavori della Commissione Scott sul territorio agricolo, ed è segretario del Town Planning Institute.

È uno studioso e professionista nella piena maturità quando affronta il tema della ricostruzione dei centri antichi danneggiati dalla guerra: Durham, Oxford, e Exeter. Centri che hanno subito i danni dei bombardamenti nazisti, e che proprio nella specifica lettura che uno studioso professionista emerso dalla cultura del surveyor, forse trovano una interessante interpretazione «complessa»: non solo luoghi della memoria nazionale artistica, dell’identità monumentale, della tutela e conservazione fisica, ma anche dell’interpretazione del genius loci come intreccio di fattori ambientali e sociali, passato, presente, aspirazioni per il futuro.

Un altro elemento da prendere in considerazione come base preliminare per un piano di ricostruzione come quello di Exeter, sono gli obiettivi del Manuale per la Ricostruzione delle Aree Centrali, pubblicato dal Ministero dell’Urbanistica britannico negli stessi anni, da cui emerge una tendenza per molti versi (abbastanza ovviamente, col senno di poi) complementare alla politica di decentramento delle new town che si avvierà di lì a poco. Ovvero che il nucleo centrale della città tradizionale, da ricostruire e riorganizzare, deve farlo guardando soprattutto a fattori di modernizzazione della rete dei trasporti e in funzione commerciale‐terziaria‐direzionale. Forse alla sensibilità attuale suona antiquato pensare a questo tipo di intervento, ad esempio se si ragiona nei termini della cosiddetta «terziarizzazione strisciante» che ha trasformato tanti quartieri dei nostri centri storici in luoghi sostanzialmente svuotati dal mix sociale ed economico che li caratterizzava come spazi urbani vitali. Ma nell’immediato dopoguerra hanno ancora forte legittimità e aspettativa certe idee di specializzazione funzionale anche a dimensione estesa, tali per cui se da un lato il suburbio, o comunque fascia periferica, è il luogo ideale per la residenza, meglio a bassa densità e con case prevalentemente unifamiliari, il centro dovrà (nel rispetto di alcuni suoi eventuali caratteri storici e ambientali) adattarsi al meglio per lo shopping, i servizi di rango superiore, le sedi di rappresentanza, gli uffici pubblici. Con tutto il loro strascico di adattamenti stradali, infrastrutture per la mobilità e i parcheggi, creazione di nuovi spazi collettivi ecc.

Lo stesso Manuale per la Ricostruzione sottolinea anche un altro aspetto, positivo, del contesto posti‐bellico: le devastazioni delle bombe hanno sì determinato tragedie in termini di danni familiari‐sociali, monumentali, al patrimonio immobiliare, alle attività economiche, ma sono anche un’occasione irripetibile. Nella sua ovvia «illegalità» la guerra ha fatto ciò che legalmente non sarebbe mai stato possibile, ovvero spazzar via, insieme ai pregi e al patrimonio urbano, anche molti ostacoli apparentemente insormontabili al cambiamento.

Interessante proprio nel caso di Exeter, ricordare come gli aerei della Luftwaffe tedesca l’avessero scelta come gioiello monumentale dell’identità nazionale britannica, da colpire con un bombardamento simbolico. La radio militare nazista nel comunicare la notizia spiegava: Exeter era un gioiello, e noi quel gioiello l’abbiamo totalmente raso al suolo. Riecheggiando a modo suo le intenzioni del Manuale per la Ricostruzione, l’urbanista Thomas Sharp già nelle battute introduttive del suo piano per la città, risponde idealmente, e anche molto britannicamente: ad essere precisi, Exeter non era tutta un gioiello, e i nazisti non l’hanno tutta rasa al suolo. In altre parole: le distruzioni, alcune tragiche e irrimediabili, aprono comunque la speranza di una «Fenice che rinasce dalle proprie ceneri» (come si intitola la pubblicazione del Piano). Una rinascita che dovrà essere equilibrata, con un incremento di popolazione di non molti punti percentuali rispetto all’anteguerra – da circa 70.000 a un massimo di 90.000 – e rispettare il ruolo di centro regionale di servizi qualificati consolidato nei secoli. Ma una rinascita che sappia anche «impastare le ceneri» in forme nuove, adeguate alle legittime aspirazioni della popolazione e del tessuto socioeconomico per un futuro migliore.

L’identità innanzi tutto: cosa c’era, cosa c’è, e cosa potrà esserci. Il gioiello monumentale, il simbolo di identità nazionale, non può essere tutelato a partire acriticamente dalla sua immagine ideale, quella per intenderci delle incisioni storiche, delle prospettive dei singoli monumenti, del metodo induttivo dal particolare al generale. Qui si avverte immediatamente la formazione specifica di Sharp, il suo orientamento culturale, quando spiega come l’intento non sia quello di suggerire specifiche forme fisiche, ma porre la base perché altri ne possano individuare, ma comunque nel rispetto della storia. Una storia che dal suo – corretto ‐ punto di vista inizia a definirsi a partire dalla lettura del modo in cui la città cresce nei secoli. Dal nucleo di origine romana sulle rive del fiume Exe, definito dall’incrocio dei due assi Cardo e Decumano in direzione grosso modo perpendicolare e parallela alle sponde, la città cresce in modo relativamente graduale, scavalcando appena il corso d’acqua con una piccola espansione a sud‐ovest, e puntando invece più decisamente a nord‐est sull’asse dell’arteria commerciale High Street e suoi prolungamenti. Con la prima epoca industriale si allarga l’insediamento, continuando grosso modo a seguire questo schema, e più vicino al nucleo storico si accentua l’avvolgimento della fascia del fiume entro le attività produttive, non completamente caratterizzanti l’economia della città ma molto «pesanti» nel definirne le forme fisiche. La prima metà del ‘900, fino all’epoca della guerra e dei bombardamenti, vede però un netto salto di qualità della crescita: a un incremento di popolazione del solo 20%, la superficie urbanizzata raddoppia, ovvero cresce del 100%.

È una vera e propria esplosione, determinata da un lato dall’incremento del consumo di spazio urbano individuale (abitazioni, spazi aperti privati e pubblici, servizi), dall’altro dall’accresciuto ruolo delle economie urbane, produttive e terziarie, nella società moderna. Ma è anche un segnale di estremo disordine nell’espansione, di spreco della preziosa risorsa costituita dal suolo agricolo, e specificamente per luoghi di interesse storico‐monumentale come Exeter, della separazione fra ambiente cittadino e contado che definisce l’uno valorizzandolo rispetto all’altro. Anche il contrasto a questa esplosione dei consumi di suolo agricolo e di paesaggio, sarà fra gli obiettivi centrali del Piano e del suo sfruttamento delle «occasioni dei bombardamenti», ad esempio favorendo una densificazione edilizia nelle aree centrali.

Il secondo aspetto dell’evoluzione storica della città esaminato da Sharp è quello, più tradizionalmente inteso, dello stratificarsi dei monumenti che ne fanno il «gioiello» preso di mira dalle bombe della Luftwaffe. È il complesso degli edifici religiosi, civili, commerciali di valore che nei secoli ne definiscono le forme e identità locale. Ma l’urbanista ribadisce: i nazisti non hanno raso al suolo Exeter, e tutte le distruzioni non hanno riguardato edifici memorabili o strutture urbane fondamentali. Il che significa, ad esempio, affermare che, monumenti indiscutibili a parte (concentrati soprattutto nel close della Cattedrale, quadrante urbano meridionale nord‐est), oggetto precipuo dell’attenzione sarà il ruolo della High Street, che dal fiume si inoltra verso le espansioni principali, a costruire la spina dorsale del piano. Molti degli edifici distrutti, salvo il loro inserimento organico entro il tessuto urbano, non avevano in effetti particolare valore, e a volte nel loro determinare strozzature, scarsa permeabilità nelle comunicazioni, diminuivano e non incrementavano il valore sociale dello spazio, indipendentemente dal loro camuffamento «storico», con travi in legno a vista o uso di materiali locali tradizionali.

Per molti versi molto più importante, se si vuole restituire la vitalità urbana che in un modo o nell’altro sta alla base della città idealizzata dell’identità locale e dello sfruttamento turistico, valutare l’entità di altre distruzioni e gravi danneggiamenti. Come i negozi, uffici, magazzini, abitazioni civili. Per cui di nuovo si apre la prospettiva, da un lato della ricostruzione e ripresa, dall’altro della modernizzazione, rilancio, crescita. Complessivamente, se si esamina a colpo d’occhio l’effetto delle distruzioni sul nucleo centrale, si nota una loro concentrazione proprio lungo l’asse della High Street. A questo si aggiunga che, lo osserva Sharp, esistono zone che in un certo modo il degrado se lo sono costruito da sole, ovvero quelle dei magazzini e industrie lungo il fiume: obiettivo del piano per la zona più interna quindi sarà da un lato la ricostituzione e rilancio dell’asse commerciale, di servizio, e di organizzazione dell’espansione principale; dall’altro la riqualificazione e riuso, attraverso un migliore collegamento fisico e funzionale verso est, della fascia lungo il fiume. Ciò rinvia però a una ipotesi più generale del ruolo della città nel territorio.

La centralità dell’asse commerciale e di servizio corrisponde a tutta un’organizzazione socioeconomica urbana, fortemente orientata ad essere un polo regionale per lo shopping, il turismo, i servizi rari. Basta osservarne il bacino regionale di influenza, che si allarga per molti chilometri in tutte le direzioni, avendo come unico limite i tempi di percorrenza e la relativa qualità e articolazione delle linee di trasporto. Del resto, c’è un rapporto di un esercizio commerciale al dettaglio ogni 49 abitanti (fra i più alti in assoluto del paese), e secondo alcuni calcoli il bacino di popolazione servito è di ben 200.000 abitanti. Ancora più vasta la regione alla quale Exeter si rivolge per i servizi di carattere culturale, legati all’istruzione superiore e universitaria, per le attività turistiche, alberghiere. Meno rilevante il peso delle attività commerciali all’ingrosso e della manifattura, che però non solo appartengono a pieno titolo alla storia urbanistica e sociale della città, ma risultano indispensabili a garantirne il ruolo di nodo regionale integrato e autosufficiente, in grado ad esempio di trasformarsi ed evolversi in varie direzioni al mutare del contesto ad esempio nazionale.

Un colpo d’occhio sull’organizzazione funzionale del tessuto centrale della città, restituisce bene l’intreccio delle varie funzioni nello spazio: abitazioni, servizi, attività economiche e civiche, produzione, verde e spazi pubblici, tutto si mescola in un sistema abbastanza eterogeneo a scala perlomeno di quartiere, con una forte polarizzazione commerciale lungo l’asse della High Street e gli isolati urbani confinanti, per una notevole profondità, polarizzazione che prosegue anche verso la fascia più periferica di espansione. Spicca, anche, il ruolo specifico della Cattedrale e del close, a costruire un settore urbano a sé. Se si vuole replicare, e mantenere, questo tipo di tendenza alla complessità, uno degli obiettivi è di evitare che nel futuro si ripeta la crescita squilibrata e a macchia d’olio che ha caratterizzato il Novecento: quando la popolazione aumentava del 20% e la superficie urbana del 100%, ovvero per ciascun abitante si consumava una quantità cinque volte superiore di suolo. Suolo sottratto all’agricoltura, al paesaggio, alla definizione delle differenze città/campagna che sono una delle principali attrattive e caratteri di un nucleo storico‐turistico. Thomas Sharp queste cose le conosce molto bene, dato pochi anni prima che è stato segretario della Commissione Scott, quella per lo studio del problema agricolo in rapporto alla crescita urbana e industriale. Una delle tavole generali del piani di ricostruzione di Exeter introduce così una interpretazione molto moderna del concetto di greenbelt, forse ancora più avanzata di quella di Abercrombie per la Grande Londra, e comunque molto più simile agli urban growth boundaries del terzo millennio, adottati ad esempio a Portland, Oregon, e poi diffusi in tutto il mondo.

Si tratta di due fences, o margini, fissati dal piano all’area edificata. Letteralmente, Sharp li descrive così:

«Il margine urbano individua un’area al cui interno in generale non c’è nulla da obiettare allo sviluppo dell’attività costruttiva […] Una seconda linea è quella del margine rurale.

In alcuni tratti è contermine a quello urbano, in altri si colloca in posizione più esterna. É opinione condivisa che quanto si trova oltre il margine rurale debba rimanere in una condizione prevalentemente agricola.

Per quanto riguarda le aree tra i due margini, esse possono essere descritte come sottoposte a una sorta di «destinazione a orologeria». Ovvero non c’è una immediata destinazione edificatoria, e nonostante essa possa essere decisa, se e quando sarà dimostrata la necessità di renderla disponibile alle costruzioni, nel frattempo non deve essere consentita alcuna urbanizzazione sporadica, che possa nuocere all’uso agricolo».

Quindi la città è libera di crescere all’interno del margine urbano, ed eventualmente, con successive deliberazioni nel caso in futuro dovesse sorgere la necessità, anche nelle fasce tra questo e il margine rurale, là dove queste fasce sono state identificate e fissate. Ciò dovrà e potrà avvenire però, solo deliberando una variante di piano regolatore, ad esempio piani esecutivi per singoli quartieri da realizzare in modo coordinato, e mai per costruzioni sporadiche isolate che ostacolano la funzione agricola senza apportare benefici alla collettività. La variante con trasformazione d’uso invece non è prevista per le zone oltre il margine rurale: qui si potrà solo svolgere l’agricoltura. È evidente come questo rafforzi e concentri tutti gli investimenti di trasformazione privati nella città interna, impediti come sono nello scegliere terreni greenfield, e in particolare a rivolgersi alle zone distrutte dalle bombe, o a quelle vicine al centro ma degradate da usi produttivi disordinatamente accumulati nel tempo.

Su questi presupposti si innesta poi il resto delle scelte generali: la rete delle arterie radiali e di circonvallazione, che sviluppa quella esistente ricalcandola sia sulla necessità di smistare il traffico regionale verso i vari quartieri, sia verso il centro terziario e commerciale. All’interno, specie negli snodi fondamentali, spesso corrispondenti ad aree molto danneggiate dai bombardamenti, Sharp organizza una serie di piazze/rotatorie per il traffico automobilistico (che è una preoccupazione centrale nella modernizzazione delle città all’epoca) su cui in seguito si ipotizzeranno di concentrare anche alcune importanti funzioni e interventi edilizi.

Il centro come già detto si orienta a rafforzare la propria funzione di polo commerciale‐terziario rivolto soprattutto al bacino regionale (e per certe funzioni anche più vasto) di riferimento. La residenza si riorganizza così soprattutto pensando alle unità di vicinato integrate della fascia periferica, ovvero più o meno tra i limiti dei quadranti in cui si articola il centro antico e il margine della urban fence. Qui l’obiettivo è, in modo non molto diverso da quello per il nucleo centrale, sfruttare al meglio ciò che esiste, addensando là dove possibile, e al tempo stesso tutelando superfici verdi qualificate e preesistenze storiche come le ville e i parchi.

Un ultimo intervento particolare per l’espansione, ancora strettamente legato alla riqualificazione del centro, è lo spostamento delle attività industriali dalla fascia del fiume verso aree esterne, in particolare in una immediatamente a sud, servita sia dalla ferrovia che dal sistema delle grandi arterie regionali. Si realizza così il duplice obiettivo, da un lato di consentire la riconversione ad attività più pregiate vicino al fiume, dall’altro il mantenimento dell’occupazione operaia e delle possibilità di crescita del settore produttivo entro eventuali contesti di sviluppo mutati.

E qui Thomas Sharp, nonostante l’enfasi sul suo voler operare puramente alla scala del piano, senza indulgere nell’indicazione di dettagli formali, pur ancora a scala urbanistica individua alcuni punti chiave del resto già emersi da ragionamento generale. Ad esempio la riqualificazione dei nodi delle piazze/rotatorie di traffico, dove converge il flusso dei visitatori per motivi turistici, di servizio, di shopping. Qui l’occasione delle demolizioni diventa strumento per prevedere, nello spazio e nel tempo quella «lettura progressiva del genius loci» soprattutto orientata alla struttura urbana e allo sviluppo socioeconomico di cui si parlava in apertura. Ovvero, confermato e rafforzato l’asse della High Street, i suoi nodi e incroci diventano occasione di trasformazione edilizia e stradale, presumibilmente concentrando anche quegli investimenti resi ancor più appetibili dall’impossibilità di edificare oltre la urban fence. Di particolare importanza e ampiezza, vista la localizzazione, l’incrocio fra il Cardo e il Decumano, dove le demolizioni dei bombardamenti consentono, rinunciando alle forme fisiche dell’angusto crocicchio tradizionale, di ripensarlo ricostruito ad ampia piazza/rotatoria, attorno alla quale si potranno attestare edifici moderni e importanti, resi accessibili anche grazie ai migliorato flusso di traffico.

Ancora più radicale e innovativo l’intervento che si propone in un’altra zona molto colpita dai bombardamenti, ovvero quella immediatamente all’esterno del close della Cattedrale in direzione dell’asse di sviluppo urbano‐regionale nord‐est già più volte citato. . È in quest’area che si concentra l’attenzione per un intervento di riqualificazione che sappia unire potenzialità e risorse sfruttando al meglio le precondizioni: la vocazione commerciale e di servizio dell’asse urbano; la posizione intermedia fra centro storico e fasce adiacenti ma anche orientate alla periferia, specie dal punto di vista della gestione del traffico, prossimità fisica, e soprattutto visiva, del complesso della Cattedrale.

Nascerà da qui l’idea, fortemente urbanistica e assai poco «progettuale» del piano di Sharp, poi ripresa sostanzialmente identica negli anni successivi e praticamente realizzata, di uno shopping mall pedonale all’aria aperta, molto moderno nella concezione, e che riesce a integrare anche le forme architettoniche più funzionali alle attività di dettaglio e servizi al panorama storico della cattedrale che chiude la prospettiva del passeggio. Anche qui le distruzioni delle bombe giocano evidentemente un ruolo fondamentale nel liberare il campo da obiezioni e ostacoli fisici, ma è soprattutto l’interpretazione complessa che l’urbanista ha saputo dare del ruolo del centro, del suo rapporto con l’intorno e la regione, a consentire l’operazione, formalmente abbastanza audace, di affiancare quello che è un simbolo assoluto di modernità, come il centro commerciale moderno, ad uno della tradizione come la Cattedrale.

A partire da una via pedonale che appare abbastanza tradizionale e anonima nei primi schizzi, e inquadra sul fondo le torri della Cattedrale, si ipotizza di recuperare a funzioni commerciali un settore trapezoidale i cui percorsi convergono man mano ci si avvicina al margine del centro. Il complesso, realizzato, sarà poi inaugurato non molti anni più tardi dalla Principessa Elisabetta (la futura Regina Elisabetta II) e battezzato Princesshay. Ancora in questi anni è oggetto di un programma pubblico‐privato di riqualificazione, con un accordo fra l’amministrazione locale e il gigante immobiliare commerciale Land Securities.

(questo testo era la scheda-dispensa di una lezione del corso Programmi di Riqualificazione Urbana, Fabrizio Bottini, Politecnico di Milano, 2008, allegata la presentazione). Exeter_Phoenix

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