Il Primo Gradino nella Scala della Proprietà

Foto M. Bottini

In Italia la proprietà della casa è praticamente il solo modo per soddisfare il bisogno abitativo: inevitabile che le distorsioni nell’uso del risparmio assumano criticità maggiori che in altri paesi. Un giurista profondo come Stefano Rodotà ricorda come il programma costituzionale della Democrazia Cristiana comprendeva lo slogan «Non tutti proletari, ma tutti proprietari”»1, confermando come il principio della casa in proprietà sia radicato, tanto da essere fin dall’origine della repubblica uno degli snodi cruciali in cui si articola il grande compromesso della politica nazionale. Sul tema del risparmio delle famiglie ci sarebbe dunque materia di studio per costituzionalisti e per economisti, visto che l’orientamento delle famiglie all’investimento immobiliare, soprattutto se scelta obbligata, si accompagna ad un crescente indebitamento, praticamente raddoppiato nel primo decennio degli anni duemila, in gran parte dovuto alle spese per i mutui.

L’articolo 47 della Costituzione italiana delinea il rapporto tra risparmio e credito. «La Repubblica favorisce il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito. Favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione e alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese». Ovvero i costituenti prevedono che i ceti produttori di risparmio utilizzino le somme accantonate per l’acquisto di case, terreni o per lo sviluppo della produzione. L’accesso al credito, supervisionato dallo stato, dovrebbe contribuire al raggiungimento degli obbiettivi. Risparmio e credito, quindi, si bilanciano e cooperano al soddisfacimento dei bisogni. La proprietà privata è garantita e riconosciuta ma la legge «ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti» (art. 42).

La cooperazione tra risparmio e credito implica che le fasce sociali deboli, che non producono quote significative di risparmio (senza alcuna possibilità di divenire rentiers) con più difficile accesso al credito, necessitano di forme alternative di solidarietà e sostegno. In altre parole, l’esigenza di soddisfare il bisogno primario dell’abitazione non si esaurisce nell’assicurare comunque, anche attraverso forme anomale di finanziamento, l’accesso alla proprietà privata, ma dovrebbe attuarsi attraverso differenti modalità: dall’affitto controllato, a un canone pubblico, alla proprietà cooperativa indivisa, alle varie iniziative di edilizia popolare. Solo dagli anni ’90 in poi tra credito e risparmio cresce la divaricazione: al circuito virtuoso subentra una relazione conflittuale dove il credito, invece di incoraggiare il risparmio nel raggiungimento di legittimi progetti (individuali ma che non interferiscono con finalità di coesione sociale) gli si sostituisce, incoraggiando chi rischia in grande e impoverendo chi deve soddisfare un bisogno.

Secondo Ada Becchi2, diventa decisivo, per i decenni futuri della disciplina urbanistica, il declino politico della democrazia dopo quello che definiamo il Biennio della Grande Consapevolezza : «A partire dal 1964 [ … ], la Corte costituzionale avrebbe fatto essa stessa la politica del diritto in materia di urbanistica». Nel merito, sostiene Becchi a partire dell’interpretazione giuridica di Giovanni Tarello, il dibattito costituzionale era stato povero di proposte, perché il terreno era potenzialmente troppo divisivo, e il pur avanzato testo costituzionale sul piano dei principi urbanistici finì per risentirne, non chiarendo la materia. «La Costituzione italiana, a differenza della Costituzione di Weimar, non ha incluso tra i limiti della proprietà fondiaria (di cui all’art. 44) quelli in relazione all’insediamento urbano, all’urbanistica in generale, al “problema della casa”»3. Se il problema della casa era vivissimo nell’immediato dopoguerra, per mancanza di prospettiva veniva inteso come problema della ricostruzione, utilizzazione delle abitazioni esistenti, di canoni di locazione o di blocco delle locazioni. I nessi tra casa ricostruzione e urbanistica non erano assolutamente presenti al legislatore costituente, e perciò che i limiti alla proprietà terriera ebbero nella Costituzione un articolo apposito (art. 44) mentre quelli alla proprietà urbana non ne ebbero nessuno.4

Italo Insolera, più interessato alla sconfitta dell’urbanistica come disciplina normativa nell’uso dei suoli, fa risalire il declino della cultura della pianificazione a un periodo molto precedente, al successo che il Blocco Edilizio5 riporta sulle leggi Giolitti del 1904-1907 che miravano a scongiurare il ripetersi dei disastri da febbre edilizia negli anni ’80 dell’Ottocento. «Il punto di gran lunga più importante delle leggi Giolitti è la tassa sulle aree fabbricabili, che alterava alcune acquisizioni tradizionali del diritto italiano: a differenza di quanto è avvenuto in altri paesi, in Italia non si riconosce l’edificabilità di un sito come conseguenza dell’azione della collettività, ma come diritto integrale del proprietario.” Infatti, la previsione della tassazione sulle aree “significa, sia pure parzialmente, riconoscere che i terreni di per sé non sono fabbricabili, ma questa possibilità deriva loro da un complesso di azioni e di opere compiute dalla collettività e a cui quindi si fa partecipe il proprietario che di tale azione beneficia, con una tassazione che, a detta degli esperti di allora, equivaleva all’incameramento di circa metà del plusvalore generato dall’urbanizzazione»6. Ma il rispetto di questo principio, che sarebbe stato decisivo salvaguardare, venne da subito eroso dalla pratica della palazzina7 che aprì la breccia a più consistenti abusi. La carenza abitativa conseguente al primo conflitto mondiale avrebbe poi fatto il resto.

Più recentemente, e siamo agli inizi degli anni ’90 del secolo scorso, con l’affermazione delle ideologie neoliberiste, si delinea compiutamente il contesto giuridico-culturale favorevole alla valorizzazione immobiliare. Roma fa ancora scuola, campo di battaglia il piano regolatore: nasce la «compensazione urbanistica», a sancire l’intangibile primato del diritto edificatorio, costitutivo della proprietà privata, indifferente al principio di pianificazione pubblica ed estraneo ad ogni esigenza sociale. Senza sospettare la portata di questa innovazione, si stabilisce che d’ora in poi costruire, su piccola o grande scala, non potrà non essere un processo incrementale8, al punto che è venuto meno anche qualsiasi principio di ancoraggio del diritto edificatorio. In pratica è tolto ogni limite quantitativo al diritto soggettivo, se non determinato da una ipotetica coincidenza di interessi pubblici e privati, che spinge i costruttori a chiedere sempre di più e le amministrazioni pubbliche a concedere di conseguenza, secondo il principio che quanto più valore è possibile estrarre dal suolo tanto più possono guadagnare sia i proprietari che la collettività.

È a questa dinamica incontrollata che vorrebbero mettere un freno le organizzazioni ambientaliste con la battaglia con il consumo di suolo. Purtroppo lo slogan «stop al consumo di suolo», pur apprezzabile nelle intenzioni, non coglie la sostanza economica del problema proprio perché il territorio è diventato elastico e il diritto edificatorio, così come è venuto configurandosi, è solo parzialmente legato ai limiti di utilizzo del suolo ridotto a mero supporto materiale di valore. Con le disordinate pratiche dello sprawl hanno così ripreso vigore, soprattutto nelle aree urbane a maggiore densità, le ideologie dell’altezza, secondo il principio che alzare gli edifici fa risparmiare territorio, come se esistesse una misura edificatoria da raggiungere comunque, indipendentemente da ogni fabbisogno, e non rimanesse che decidere se farlo in orizzontale o in verticale9.

Estratto dal Cap. 5 de La Moneta di Argilla, Ornitorinco; su questo sito vedi anche Industria edilizia e sviluppo post-industriale 

NOTE

1 S. Rodotà, Il sistema costituzionale della proprietà, in Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata, il Mulino, Bologna, 1990, pag. 296.
2 A. Becchi, Decisione politica, in Meridiana, Rivista di storia e scienze sociali, n. 9, Viella, Roma, 1997, pagg. 107 – 134.
3 Questo il testo dell’Articolo 44 della Costituzione: Al fine di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali, la legge impone obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata, fissa limiti alla sua estensione secondo le regioni e le zone agrarie, promuove ed impone la bonifica delle terre, la trasformazione del latifondo e la ricostituzione delle unità produttive; aiuta la piccola e la media proprietà. La legge dispone provvedimenti a favore delle zone montane.”
4 Cfr. G. Tarello, La disciplina costituzionale della proprietà, citato da Ada Becchi.
5 L’espressione fu usata da Valentino Parlato in un celebre articolo intitolato appunto Il blocco edilizio, pubblicato sulla rivista Il Manifesto, n. 3-4 del 1970. Il testo è stato ripubblicato nel volume Lo spreco edilizio, a cura di F. Indovina, Marsilio, Venezia, 1972.
6 I. Insolera, Roma moderna. Da Napoleone I al XXI secolo, Einaudi, Torino, 2011, pag. 95.
7 L’avvento della palazzina romana è ben descritto nel lavoro di Insolera (Op. cit., pag. 103 e segg.). Con la normativa giolittiana la fabbricabilità o meno di un terreno è determinata dal piano regolatore. Il piano di Roma del 1909 ad opera di Edmondo Sanjust di Teulada prevede tre tipologie abitative, fabbricati, villini e giardini. “I fabbricati possono arrivare fino a 24 metri d’altezza, i villini devono essere di soli due piani oltre il piano terreno e circondati da ogni parte da giardinetti; i giardini possono essere costruiti solo per 1/20 della loro area e con costruzioni di lusso”. Sui giardini e soprattutto sui villini, che complessivamente erano destinati ad assorbire un quarto della popolazione si scatenano gli appetiti edilizi romani con pesanti tentativi di trasformare questi ultimi appunto in palazzine, alzandoli a 19 metri e riducendo al massimo il verde circostante. “Quella che si può definire l’operazione palazzina ha inizio già prima della grande guerra, ma si concluderà nel 1920 quando si consentì la costruzione di palazzine invece che di villini per venire incontro alla crisi edilizia conseguente alla guerra stessa.”
8 Italo Insolera, nel glossario al libro che abbiamo più volte citato, dice: “Il presupposto culturale alla base della compensazione urbanistica è l’esistenza dei diritti edificatori: le previsioni di piano regolatore non possono essere cancellate se non trasferendole in un altro luogo dove esercitare, appunto, un insopprimibile diritto. [ … ]
Ma gli urbanisti del Comune di Roma affermavano per la prima volta nel panorama nazionale che la tutela paesaggistica non ha la forza giuridica di cancellare preesistenti destinazioni urbanistiche, né che attraverso i processi urbanistici si possa estendere la salvaguardia su aree precedentemente destinate all’edificazione. Nasce il concetto di diritto edificatorio che avrebbe accompagnato tutto il percorso dell’urbanistica romana e da lì si sarebbe esteso in tutta l’Italia.”
9 Valga per tutti l’esempio del recupero aree ex Fack di Sesto San Giovanni, una delle città a maggior densità abitativa del Paese, dove Renzo Piano per anni si è destreggiato da impareggiabile virtuoso tra case alte, volumi, parchi, servizi, ecosostenibilità, contesti, vuoti, pieni, tradizioni e genius loci senza che sia ancora stato posato un solo mattone. L’area è sempre quella, circa 130 ettari, ma i volumi lievitano a seconda delle richieste, dei costi per le bonifiche, delle esigenze finanziarie dei costruttori e dello stato delle sofferenze bancarie. Renzo Piano è solo l’ultimo in ordine di tempo degli architetti che si sono cimentati nella quadratura di un progetto che inizialmente si fondava sulla contropartita di un grande parco pubblico per far posto infine alla città della salute, un grande polo ospedaliero che dovrebbe agevolare la speculazione sulle aree di Milano che attualmente ospitano gli ospedali che si prevede di trasferire a Sesto. Più recentemente si è fatto avanti persino un gruppo arabo con la proposta di un immenso parco dei divertimenti e anche la disponibilità di Renzo Piano ha cominciato a vacillare.

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