Jane Jacobs: ritratto del Cittadino Urbanista da Giovane (3)

Per la salvezza dello West Village

In «Treno panoramico» verso l’udienza comunale

Mentre il libro era terminato e aspettava solo la pubblicazione, Jane tornava a Architectural Record nel febbraio 1961 per restare solo tre settimane, prima che la sua pace fosse ancora turbata. Perché scorrendo professionalmente i giornali le capitò sott’occhio qualcosa di inquietante. Il comune aveva chiesto al governo federale 350.000 dollari per lo studio preliminare a stabilire se il quartiere dove abitava fosse o meno una zona degradata di tuguri da radere al suolo così come era successo in certe zone di Harlem o nel West End a Boston. C’erano quattordici isolati nello West Village – a comprendere anche veri e propri simboli del quartiere come Lion’s Head Coffee o White Horse Tavern – che rischiavano concretamente la demolizione completa. Città e Stati per legge potevano espropriare per pubblica utilità nelle aree classificate degradate attingendo alle risorse federali per completare i progetti di ricostruzione. Jane era scioccata. Era chiaro che chiedere a Washington il finanziamento per uno «studio» era la premessa alle ruspe. Senza perdere un minuto insieme ad altri trenta vicini presentarono ricorso al Commissioner for Housing and Redevelopment cittadino. E con grande sollievo venne loro garantito il tempo di un mese per dimostrare che il quartiere non era affatto uno slum. Dopo le esperienze per la tutela del parco e il contrasto agli allargamenti stradali gli abitanti formarono prontamente un Comitato per la Salvezza dello West Village chiedendo a Jane di presiederlo.

Alla prima riunione partecipano trecento persone. Si decine di partire con un rilievo degli edifici e mostrare che non sono affatto tuguri. Di nuovo si uniscono alle attività anche i più piccoli disegnando cartelloni distribuendo volantini facendo altre commissioni. I volontari del Comitato girano porta a porta intervistando le famiglie sulle condizioni di vita. Si documenta come praticamente tutti gli alloggi siano in buone condizioni. Sono molti i proprietari che hanno investito in manutenzioni dei vecchi ma ben tenuti edifici, restaurando quei soffitti alti, le travi fatte a mano, i grandi camini. Come potevano gli uffici comunali pensare che quel posto fosse un quartiere degradato e malsano da sostituire con le solite torri residenziali architettonicamente sterili? Evidentemente il fascino di una generica modernità rendeva ciechi di fronte a veri e propri tesori urbani. Centinaia di persone di ogni tipo – avvocati e scienziati, artisti e bottegai, scaricatori di porto – si univano per salvare il West Village. Gruppi circoscritti si concentravano su aspetti particolari come lo studio delle questioni legali, i metodi operativi della pubblica amministrazione, o la traduzione dei documenti in spagnolo.

«Chiunque abitasse o lavorasse nel quartiere poteva aderire al gruppo – ricorda Jane. Non c’erano altre formalità o doveri … Si faceva solo quello su cui tutti erano d’accordo o su cui le eventuali obiezioni non avevano convinto tutti». Un dipendente degli uffici comunali apprese e comunicò al Comitato alcune importanti informazioni riguardo alle norme operative del rinnovo urbano. L’amministrazione poteva attuare i progetti di demolizione e ricostruzione solo con qualche genere di «partecipazione dei cittadini». E questa partecipazione poteva anche consistere nel riferire agli amministratori cittadini o statali che si volevano interventi. E quindi di fronte a qualunque domanda di portavoce dell’amministrazione su cosa si desiderasse per il quartiere gli abitanti dello West Village dovevano rispondere sempre ed efficacemente:«Cancellate la designazione a slum». Con quel genere di partecipazione non si poteva far altro che non mettere in campo alcun progetto di Urban Renewal!

Era importante tenere alto il morale dentro il gruppo per contrastare i progetti comunali, suscitare attenzione, dimostrare che non si aveva nessun timore del potere. Ci si poteva anche divertire nella militanza per salvare il quartiere, per esempio riunendosi al Lion’s Head o anche a casa di Jane. A lei piaceva cucinare «e ci nutriva abbondantemente tutti» ricorda un amico. Per attirare l’attenzione dell’opinione pubblica anche attraverso i giornali spesso si agiva con gran clamore. Come andando in comune per un incontro mentre si sventolavano bandierine da un «treno panoramico». A una riunione della City Planning Commission il presidente, James Felt, dichiarava che gli uffici «stanno collaborando in stretto contatto con gli abitanti del quartiere. Gli replicava un residente del West Village mimando un fragoroso conato. Esterrefatto il presidente rispondeva a sua volta «Per favore la prego» ma ormai si erano chiarite le posizioni e tutti si trattenevano dal ridere. I favorevoli al progetto di Urban Renewal in comune tentarono di costituire «comitati fantoccio» come li definiva Jane, a sostegno della trasformazione. Con nomi come «Gruppo degli Abitanti» sembravano in effetti formati spontaneamente dai cittadini ma si trattava in realtà di strumenti dell’amministrazione o dei costruttori che speravano di trarre profitto dal piano.

Dopo il rilievo da cui era emersa una situazione di degrado davvero minimale Jane e il Comitato si presentarono alle udienze a dimostrare documentatamente che il quartiere non era affatto uno slum. Ma per gli uffici a quanto pare non faceva alcuna differenza. Senza scoraggiarsi i componenti del gruppo ottennero rinvii, organizzarono marce di protesta, affollarono ogni genere di riunione o assemblea di propri relatori ed esponenti. Ad una udienza tutti indossarono occhiali da sole con delle grandi X a indicare il classico segno degli edifici da demolire. Jane era la relatrice principale. La battaglia per la salvezza del quartiere durò mesi. Apparentemente molto interessato alla questione per via della prossima scadenza elettorale, il Sindaco di New York, Wagner, alla vigilia del voto dichiarava che avrebbe chiesto alla City Planning Commission di «accantonare definitivamente il progetto». Ma solo il mese successivo quella richiesta veniva respinta, qualificando la zona «degradata e passibile di demolizione e ricostruzione». Con queste minacciose frasi ancora rimbombanti nelle orecchie gli abitanti del Village appena ascoltata la dichiarazione saltarono sulle sedie inscenando quella definita dai giornali come «una semi-rivolta». Nonostante tutti gli sforzi associati il comune non ci aveva affatto ripensato.

Jane riassunse così quel che tutti stavano pensando: «Sempre la stessa storia. Uno speculatore individua l’area, poi convince gli uffici comunali a classificarla degradata, poi arrivano le ruspe a cacciarti fuori di casa». Come i cittadini ormai sapevano molto bene erano in tanti gli interessi edilizi e immobiliari in agguato per approfittare del piano di Urban Renewal. La Associated Press riferiva in una nota come «Gli abitanti del West Village a centinaia hanno preso un permesso dal lavoro per accompagnare la signora Jacobs alle udienze in comune, la più contrastata durata fino alle quattro di mattina, ma ci è voluto un appello diretto al Sindaco a concludere la vertenza». Il 31 gennaio 1962 dopo un anno di battaglia per la salvezza del quartiere – e dopo un deciso intervento del sindaco Wagner – tutti i componenti la City Planning Commission votano contro la designazione a slum da demolire dello West Village. Jane e i suoi collaboratori festeggiano la vittoria, anche se sanno che quello scontro è solo uno dei tanti a New York come nel resto delle città del paese.

La fortuna di «Death and Life»

Tra la gente anche al pub

Nell’ottobre 1961, non molto prima della vittoria per lo West Village, arriva nelle librerie The Death and Life of Great American Cities. Immediatamente le recensioni salutano la grande originalità del lavoro di Jane. Dalle pagine del San Francisco Chronicle a quelle del Wall Street Journal i critici lo definiscono un trionfo, un’opera grandiosa, una fondamentale nuova prospettiva di osservazione. Le idee di Jane fanno discutere, e la battente campagna pubblicitaria diffonde il verbo. Negli uffici pubblici, tra gli architetti e urbanisti, nei comitati e associazioni di cittadini, tra i lettori comuni, circola quella eloquente prosa. Molti sono ispirati dalla provocazione, altri dissentono. Anche chi è molto critico sul lavoro, ammette comunque l’importanza di Death and Life. Un importante studioso di urbanistica, Lloyd Rodwin, è al tempo stesso critico e ammirato. Comincia la sua recensione per la New York Times Review of Books ammettendo il fallimento delle più recenti esperienze di Urban Renewal. Ma ricorda che non tutti devono per forza condividere le idee di Jane secondo cui il posto migliore per stare siano quei quartieri urbani densamente popolati.

Non è forse vero che invece sono così tanti a volersi trasferire nel suburbio appena se lo possono permettere? Certamente ammette Rodwin «con tutte queste debolezze» Jane ha comunque scritto «un grande libro». Afferma che «i lettori possono concordare o dissentire su varie questioni, ma saranno in pochi a non iniziare a guardare le proprie vie e quartieri in una prospettiva diversa». Anche Architectural Forum dedica un editoriale e un lungo articolo allo «scontro di idee» suscitato dal lavoro di Jane. Sottolineando come «FORUM non è certo del tutto d’accordo coi contenuti del libro di Jane Jacobs» il recensore poi esulta «ma non è straordinario vedere come certi luoghi comuni dati a lungo per scontati in qualunque campo possano essere messi in discussione con tanta intelligenza?». La rivista propone poi un dibattito dal titolo «Città americane: vive o morte? Visioni diverse». Critico su «quel libro» l’urbanista di Boston Edward J. Logue accusa Jane di voler far diventare tutte le città identiche al suo amato Greenwich Village. Prende in giro la sfiducia nei grandi progetti sostenendo che «il rinnovo urbano oggi è lo strumento più efficace per far sì che le città possano riprendersi con le proprie forze». Il giornalista Edward T. Chase per contro ritiene che Jane non sia affatto contraria ai grandi progetti urbanistici ma «ai cattivi grandi progetti urbanistici». E ne loda il ruolo nello spiegare ai cittadini la città da un punto di vista ecologico attento a delicati equilibri così simili a quelli di un ambiente naturale, in cui qualunque cambiamento deve avvenire con gradualità e attenzione.

Nonostante queste rassicurazioni di Chase sono molti gli urbanisti a sentirsi comunque aggrediti in quanto tali. «Il libro di Jane Jacobs farà molti danni rovesciando troppa sabbia negli ingranaggi – scrive un progettista – ma dobbiamo comunque continuare a vivere. Quindi rimbocchiamoci le maniche e proviamo a resistere al colpo». Qualcuno reagisce accusando di dilettantismo che discute argomenti da esperti. Il Journal of the American Institute of Planners arriva a ridicolizzare Jane definendola «La magica ballerina di Hudson Street». Il Commissario alla Casa di New York, Roger Starr, si unisce all’attacco liquidando quella che chiama una visione solo marcatamente romantica della città in cui «le fabbriche sembrano tranquillamente convivere con le case senza neppure uno sbuffo di fumo e le vie sono affollate giorno e notte senza però nessun problema di traffico o disordine». Starr continua domandandosi in quanti potrebbero davvero permettersi di di comprare e restaurare vecchi fabbricati al Greenwch Village per realizzare la «abolizione del tugurio» nel quartiere. Parlando dopo Starr a un convegno Jane lo userà come esempio «quanto stupida può essere certa gente». Lui replicherò secco «ma che simpatico caratterino eh?».

Uno degli attacchi più decisi a Death and Life arriverà da chi aveva in un primo tempo sostenuto l’autrice, il famoso critico di architettura Lewis Mumford. In un molto letto articolo sul New Yorker, Mumford con tono derisorio parla delle «ricette casalinghe di Mamma Jacobs». Anche se certamente condivide le aspre critiche agli edifici troppo alti dei progetti di rinnovo urbano, poi si risente per quelle al modello della città giardino di cui è storico sostenitore. Stronca la convinzione di Jane che «le città non possano essere un’opera d’arte»: ribatte, Mumford, che invece possono e devono ispirare i propri cittadini con grandiose vedute e architetture. C’è addirittura un certo lettore che inferocito restituisce il libro alla casa editrice e lo accompagna con una lettera. Definisce il volume «approssimativo» minacciando addirittura querele per l’aver riportato passaggi che danneggiano la sua reputazione, e conclude: «Vendete questa spazzatura a qualcun altro» . Si firma, cordialmente, Robert Moses.

Nonostante tutte queste stroncature all’opera di Jane, la maggior parte dei lettori conviene sul fatto che The Death and Life of Great Amercan Cities contenga idee nuove e stimolanti. Nel giro di promozione per il paese l’autrice incontra molto consenso locale alle sue opinioni che sfrutta senza alcuna esitazione nel caso specifico. A Pittsburgh in Pennsylvania loda gli interventi per le colline e le sponde del fiume definendo però i complessi di case pubbliche «spogli miserabili e squallidi». Durante una presentazione del libro a West Palm Beach, Florida, approva la riqualificazione del waterfront ma critica l’interramento di una insenatura per realizzare un auditorium. Che potrebbe non solo rovinare il panorama ma modificare la ventilazione della zona con effetti nell’insieme «disastrosi». Nella sua città, New York, è invitata come ospite alla accademia di polizia: hanno molto apprezzato le riflessioni sulla sicurezza dei marciapiedi e adottato Death and Life come testo di studio dei corsi di formazione. Il testo si guadagna presto anche una fama internazionale. Un anno dopo la pubblicazione negli USA ne esce una stampa nel Regno Unito, e non molto più tardi altri lettori possono leggerla tradotta in tedesco, italiano, spagnolo, danese, portoghese, giapponese e cinese.

Ancora contro l’amministrazione e una autostrada

Robert Moses e l’idea di città

Per quanti lettori andassero in visibilio scorrendo le pagine di Death and Life, Jane si chiedeva talvolta perché non riuscisse a convincere urbanisti e amministratori a considerare il valore dei quartieri che aveva così vividamente descritto. «Era scoraggiante. Arrivai a casa una volta di ritorno dal Lower East Side dove operava a pieno ritmo la wrecking ball, e sfogandomi con Bob: “è inutile spiegare le cose, non serve a niente, continuano a ragionare e agire nello stesso modo, nulla è cambiato”». Bob come sempre paziente a saggio replicava pensoso: «Su, Jane, pensa da quanto tempo è stata scritta la Bibbia e ancora la gente non fa quel che c’è scritto là». E Jane in effetti pensava che fosse una diversa prospettiva di osservazione anche quella. Aveva messo inn discussione nel libro l’idea di rinnovo urbano criticando quelle «arterie veloci che sventrano le grandi città» ma presto avrebbe dovuto ancora tradurre il pensiero in azione. L’autostrada attraverso Washington Square bloccata anni prima grazie al suo impegno diventava la premessa a un’opera ancora più invadente: la Lower Manhattan Expressway. Si parlava da decenni negli uffici di questa gigantesca arteria e ora Robert Moses pareva determinato a realizzarla.

Invece di scorrere tangenzialmente ai margini della città, le dieci corsie sopraelevate tagliavano dritte attraverso la parte sud di Manhattan quasi sfiorando lo West Village nel percorso dallo sbocco dello Holland Tunnel a ovest verso il Ponte di Williamsburg a est. Le rampe di accesso e raccordo con la viabilità urbana si allargavano sui quartieri. Lungo tutto lo sviluppo di Broome Street la Lower Manhattar Expressway spazzava via ampi tratti di Chinatown, Little Italy e la parte ebrea del Lower East Side, incombendo poi su molto altro: e tutto solo a vantaggio di chi scorrazzava a tutta velocità attraverso Manhattan da Long Island al New Jersey e viceversa. Quel genere di arteria veloce a molte corsi che consente di fare il pendolare abitando in villetta con giardino immersa nel verde molto lontana dal posto di lavoro. E tanti fra loro si muovevano ogni giorno verso gli uffici di New York dalla Westchester County o dal Connecticut. O da altre zone suburbane più recenti con schiere di scatolette identiche come quelle costruite da Abraham Levitt e figli in ex aree rurali chiamate «Levittown», in New Jersey, a Long Island e in Pennsylvania.

Luoghi fatti di centinaia di casette tutte uguali quasi senza altro e soprattutto senza alcuna vita urbana, posti artificiali molto diversi dall’esistenza di relazione cantata da Jane. «Tolleranza, disponibilità ad esprimere differenze tra i contesti– aveva scritto in Death and Life – del tutto normali nella vita urbana … quanto estranee a quella suburbana». I coloratissimi quartieri di Chinatown e Little Italy insieme su Broome Street brulicanti di botteghe familiari e ristoranti etnici. Decine di palazzi storici ottocenteschi architettonicamente splendidi con quelle ampie superfici in vetro tra colonne di ghisa affacciati sulla medesima via. Temendo che le demolizioni potessero iniziare in qualsiasi momento già le proprietà non facevano adeguata manutenzione. Artisti si erano trasferiti nei vecchi spazi commerciali e stavano sparsi tra abitazioni e piccoli esercizi. Ma Robert Moses definiva quel «distretto della ghisa» (nella zona che oggi si chiama Soho) «una delle zone più degradate di Manhattan, uno dei peggiori anzi forse il peggiore slum di tutta la città».

Nell’agosto del 1960 padre Gerard La Mountain diventa pastore della Chiesa del Santo Crocifisso di Broome Street. Proprio quell’anno Moses e i suoi alleati sfruttavano lo Highway Act federale del 1956 che metteva a disposizione fondi per le autostrade inter-statali, iniziando le procedure per far attraversare la città alla Lower Manhattana Expressway. A mostrare la propria determinazione gli uffici cittadini pubblicavano una mappa riportante il tracciato di quella arteria veloce. Padre La Mountain capì come si dovesse lottare per cercare di salvare la chiesa e la congregazione. A fine aprile 1961 venne convocata una assemblea, a cui parteciparono esponenti di varie religioni, parti politiche, professioni. Gente che in tempi normali non si sarebbe neppure rivolta la parola si ritrovava d’accordo su quell’obiettivo comune. Venne formato il Comitato Congiunto Contro la Lower Manhattan Expressway. Il padre aveva invitato all’assemblea anche Jane, adesso famosa scrittrice. Voleva solo partecipare come osservatrice e sostenitrice, ma poi accetta di presiedere l’incontro e «si avverte subito l’effetto carismatico della Signora Jacobs» come scriverà un giornale. «Ha iniziato a porre la questione di quel che sarebbe successo agli abitanti e attività sfrattati. Gli abitanti forse trasferiti dentro asettici anonimi edifici a torre …».

Insomma Jane incitava i presenti ad agire e a farlo in fretta. A inizio luglio l’Ufficio del Bilancio comunale la cui importanza era paragonabile a quella del Sindaco, responsabile per le decisioni in materia di espropri, prevedeva una udienza decisiva per la Expressway. Il Comitato contrario all’opera organizza immediatamente una iniziativa per diffondere le informazioni in quartiere e promuovere altre riunioni degli abitanti. Il metodo funziona. All’udienza prendono parola cinquantanove oratori. Il Sindaco Wagner letteralmente travolto acconsente a rinviare qualunque decisione di almeno novanta giorni. C’è tempo di lavorare alla causa. Per tutta l’estate il Comitato organizza manifestazioni e ottiene altri rinvii. «Si convoca una assemblea e arrivano il triplo dei partecipanti previsti obbligando a cercare un locale più grande» ricorda l’attivista Frances Goldin. Appariva chiaro almeno come «i cittadini avessero più potenza del motore di un’auto». C’erano duecento raggruppamenti diversi e di diverso orientamento politico che facevano capo al Comitato. «Sapevamo organizzarci per stare uniti e farci pubblicità». I dimostranti arrivavano in autobus da Broome Street alle udienze comunali creando atmosfere molto teatrali. Artisti che dipingevano cartelloni: Little Italy Schiacciata dal Progresso; Morte del Quartiere; La Gente vale più delle Macchine. Si scandiva in coro: «Cancellate dalla mappa l’arteria veloce di Broome Street». Una volta Jane e altri del Comitato si presentarono in udienza indossando maschere antigas a sottolineare il problema dell’inquinamento creato dall’autostrada urbana.

Ne dicembre 1962 in una riunione all’Ufficio del Bilancio funzionari cittadini, statali e federali continuavano ad esprimersi favorevolmente alla sopraelevata a dieci corsie. Molto diversa l’opinione dei cittadini: si sarebbero sradicate almeno duemila famiglie, e ottocento piccole attività che davano lavoro a circa diecimila persone. E si distruggeva una intera coesa comunità per peggiorare ulteriormente la situazione del traffico locale: far passare così una autostrada inserita nella rete interstate era pensare esclusivamente alla mobilità automobilistica pendolare a tutte spese della città di New York. Un piano di esproprio spinto da potenti interessi della speculazione immobiliare per approfittare della costruzione di nuovi edifici su terreni acquisiti a bassissimo prezzo. Nel corso dell’udienza Jane definisce le argomentazioni usate anni prima da Moses per l’arteria di attraversamento a Washington Square poi cancellata «stupidate»: «E adesso le stesse stupidate dobbiamo riascoltarle da Moses a sostegno della Lower Manhattan Expressway». Dopo otto ore e quarantaquattro interventi (trentanove contrari il progetto) i funzionari dell’Ufficio Bilancio esausti rinviano qualunque decisione di un’altra settimana. Cinque giorni più tardi accade l’impossibile. Il Sindaco Wagner dichiara che l’Ufficio Bilancio a deciso di accantonare il progetto di arteria veloce di attraversamento.

Appena ascoltata la notizia i membri del Comitato sempre stazionati in attesa agli uffici comunali si baciano e abbracciano. Una vittoria straordinaria! Uniti si poteva anche riuscire a impedire che una autostrada interstatale passasse attraverso il cuore della più grande città del paese. Il deluso delegato ai problemi del traffico accusa Jane di essere la principale responsabile del blocco della expressway, responsabilità o merito respinto al mittente: «Responsabili della decisione su Broome Street sono migliaia di persone. Dire che sono stata io significa negare che tanti con una giusta causa possano realizzare qualcosa anche senza di me» dichiara Jane a un giornalista. Ma purtroppo anni più tardi la Lower Manhattan Expressway avrebbe risollevato la sua mostruosa testa: «La regola vuole che le autostrade debbano essere colpite tre volte per affondare» osserverà Jane con una battuta. Tornava quel progetto dopo l’elezione a sindaco di John Lindsay nel 1966. Con l’idea di interrare parte del percorso e costruirci sopra case e scuole. Ma gli attivisti sapevano cosa fare i di nuovo ci fu mobilitazione. All’udienza cruciale dell’aprile 1968 cento cittadini si erano iscritti a parlare. Secondo l’opuscolo ufficiale scopo dell’udienza era «dare l’occasione agli interessati di far sentire la propria voce ed esprimere una opinione sul progetto».

Ma i funzionari statali e cittadini seduti sul palco, guidati da John Toth del New York State Department of Transportation, parevano intenzionati solo ad attuare quel progetto. Poco interessati ad ascoltare critiche ed opposizioni. Il microfono per gli interventi era posizionato girato lontano dal quel palco, e i cittadini avevano l’impressione di parlarsi addosso, non di rivolgersi ai funzionari di cui non condividevano le idee. Toth lasciò più tempo agli interventi favorevoli al progetto di quanto concesso agli oppositori. I cittadini portavano cartelli e provavano a contestare qugli oratori, ma venivano ignorati. Il presidente non faceva nulla per moderare il dibattito. Dopo due ore di questa baraonda da pubblico iniziò a salire la voce «Vogliamo Jane. Vogliamo Jane». Che si presentò girandosi verso l’uditorio, per spiegare come tutta l’udienza fosse una farsa: gli uffici erano comunque intenzionati a proseguire col progetto indipendentemente dalle obiezioni. Dato che comunque quelle obiezioni erano state largamente esposte e spiegate, Jane propose un pacifico corteo fino al palco per sottolineare l’opinione contraria. Si mossero una cinquantina di persone.

Spaventatissima, la stenodattilografa per la stesura dei verbali sollevò malamente la sua macchina, facendo cadere il nastro sul pavimento. I dimostranti ci camminarono sopra, facendolo a pezzi che qualcuno raccoglieva per buttare in giro. Al che Jane ebbe una intuizione: «Nessun verbale, nessuna udienza. Basta con queste procedure finte e manovrate». Infuriato il presidente Toth chiedeva di arrestare Jane. I poliziotti pur riluttanti eseguirono l’ordine. E di nuovo saliva la voce: «Vogliamo Jane.Vogliamo Jane» mentre la seguivano verso la stazione di polizia. Fu rilasciata due ore più tardi, anche se avrebbe dovuto trovarsi un avvocato a difenderla dalle accuse di incitazione alla rivolta e impedimento di funzioni pubbliche. Dopo mesi di udienze in tribunale il giudice la condannò a una piccola multa. Ma la protesta aveva ottenuto il suo scopo. Alla fine nell’agosto 1969 l’Ufficio Bilancio votò all’unanimità di eliminare dalle mappe cittadine la Lower Manhattan Expressway: affondata tre volte era finalmente morta.

Rivitalizzare tutte le città

Nuove generazioni e spazio urbano

Impedendo la realizzazione dell’autostrada urbana Jane e i Comitati dimostrano come uniti si possa esprimere efficacemente la propria opinione ed essere imbattibili anche contro ostacoli apparentemente insuperabili. Giornali e riviste nazionali iniziano a raccontare la storia di come questi cittadini comuni abbiano impedito che una autostrada interstatale attraversasse i loro quartieri, un trionfo di opposizione unico dai tempi del blocco alla Embarcadero Freeway di San Francisco dieci anni prima. La vittoria tempra il morale di tutti i comitati cittadini e presto da New Orleans, a Boston, a Nashville e altrove, si verificano delle «rivolte contro l’autostrada veloce» convincendo le amministrazioni a non tagliuzzare così i quartieri con le arterie stradali. Le idee un tempo un po’ aliene di Death and Life, l’ispirazione delle lotte guidate da Jane, contribuiscono a rallentare e poi ad arrestare definitivamente le trasformazioni dei grandi progetti di Urban Renewal nei vecchi quartieri. Sorgono nuovi gruppi organizzati di cittadini a Cobble Hill, Brooklyn, o Cedar-Riverside, Minneapolis, per difendere le zone urbane miste tradizionali dalla distruzione. Si adotta il concetto della conservazione e riqualificazione dei vecchi edifici.

Nel 1965 l’amministrazione di New York adotta la Landmarks Preservation Law che tutela alcune zone e oggetti dalle demolizioni, altre città si adeguano presto. Nel 1966 il governo federale approva il National Historic Preservation Act che costituisce il Registro del Luoghi Storici. Nessun edificio o zona inclusa nel Registro può subire demolizioni se non dopo un attento esame e serie motivazioni. Infine nel 1974 il Congresso voterà il termine dei finanziamenti allo Urban Renewal così come concepito dallo Housing Act 1949. Vengono invece messi a disposizione finanziamenti alle amministrazioni locali per intervenire sui quartieri degradati secondo modalità decise volta per volta in modo partecipato. Gradualmente anche la comunità dei professionisti dell’urbanistica così criticata da Jane inizia a condividerne alcune idee, mentre anche le scuole di Architettura del paese iniziano a insegnare agli studenti la collaborazione coi cittadini nelle trasformazioni dei quartieri, una autentica collaborazione.

Nello West Village, i cittadini che già avevano partecipato al locale Comitato per la Salvezza, oggi riorganizzati col West Village Commitee, riusciranno a farsi finanziare dalla pubblica amministrazione il progetto di costruzione di 475 bassi edifici negli spazi inedificati interstiziali del quartiere, le West Village Houses lungo il tracciato della dismessa e demolita sopraelevata ferroviaria merci. Si riqualificano i vecchi quartieri per nuove funzioni. Le sponde portuali o zone industriali di città come Baltimora o San Francisco si riconvertono a usi pubblici o commerciali. Anche nel resto del mondo si provano ad applicare le idee di Jane. La Regina Beatrice d’Olanda ne apprezza la brillante capacità e la chiama a consulto per costruire nuovi quartieri densi di piccole abitazioni a Amsterdam. La ragazzina impertinente così sicura delle proprie convinzioni che sfidava gli insegnanti ha indotto una intera nazione a ripensare l’idea di città – e di cosa non funziona – osservandola in una prospettiva diversa. Con quelle vivaci descrizioni e logiche argomentazioni, Death and Life ha dimostrato il modo del tutto naturale in cui operano le città, e l’importanza di chi le abita nel conferire vitalità.

Jane se aveva evidenziato il valore delle città e la particolare composizione della loro vitalità – dalla mescolanza di funzioni e edifici diversi, alle densità, alle forme degli isolati – non ne concludeva una ricetta per intervenire. L’idea era che ciascuna città fosse un sistema complesso e irripetibile. I cittadini dovevano capire ogni volta dove si trovasse il valore, e gli urbanisti badare a non cancellarlo. «Se possiamo imparare qualcosa in quel senso da Jane Jacobs – rifletterà il critico di architettura Paul Goldberg nel 2006 – è non cercare ad ogni costo un modello di trasformazione, ma un modo per mettere all’erta la sensibilità anziché il luogo comune». Con questa nuova percezione della vita urbana oggi le persone stanno tornando verso i centri città. Amministratori, politici, esponenti del mondo economico in qualche modo riprendono a investirci aspettative. Tanti centri un tempo semi abbandonati in tutti gli Stati Uniti oggi sono di nuovo lindi e popolati. La concentrazione di attività attira abitanti e visitatori, i giovani traslocano nei vecchi quartieri, come a New York nella zona un tempo desertificata e adesso rivitalizzata e trendy di Soho. Jane per prima ci spiegherebbe che non crede sia proprio merito suo tutta la riqualificazione urbana. Ma è il suo amore per le città ad aver aiutato a spingere milioni di persone ad abitarle e apprezzarle. «Le città sono l’oggetto di tanti crucci e discussioni e problemi apparentemente insolubili. Se inizi a interessarti sul serio a loro finisci per scivolare in tante tematiche diverse. Perché contengono un po’ di tutto e spingono a pensare a tutto. È una gran fortuna interessarsi alle città».

Epilogo

Nel giugno 1968 Jane Jacobs insieme alla famiglia si trasferisce in Canada per evitare che i figli vengano chiamati alla leva obbligatoria e mandati al fronte della guerra in Vietnam, un conflitto a cui si era opposta con tanta decisione da finire in carcere durante una protesta non violenta. Appena sistemata nella nuova casa di Toronto scopre che anche qui c’è una pubblica amministrazione che progetta autostrade urbane attraverso i quartieri, compreso il suo. Si unisce alla lotta per fermare la Spadina Expressway, che alla fine vedrà sconfitte le automobili e vincitori i cittadini. Jane continua a denunciare l’invadenza delle auto e a promuovere invece l’uso del trasporto pubblico, metropolitane e autobus. Crede che «Spostare sempre gli esseri umani dentro una scatola di ferro è assurdo». La famiglia vive in una zona molto interessante di Toronto, Annex, vicina sia al centro che alla metropolitana, con vivacissime vie commerciali e case sia unifamiliari che condomini. Pur scegliendo la cittadinanza canadese, rimane in stretto contatto con gli amici e la famiglia rimasti negli Stati Uniti. Nelle lettere alla madre, trasferita in Virginia per stare vicina al figlio John, le racconta della famiglia della casa e del giardino fino alla scomparsa di Bess Butzner all’età di 101 anni nel 1981.

Segue ancora da lontano le questioni del suo vecchio quartiere, abbonata alla newsletter del Comitato per il West Village, e visita anche New York di tanto in tanto, una volta nel 2004 per una conferenza dedicata alle West Village Houses. A Toronto, se non sta a coltivare pomodori sul terrazzo del tetto, se non va a visitare qualche meta esotica, Jane prosegue nella scrittura di libri, tra cui i due che giudica i suoi più importanti. The Economy of Cities esamina l’insediamento urbano nella storia dal punto di vista della prosperità o stagnazione delle città. Cities and Wealth of Nations sostiene la tesi secondo cui le regioni urbane e non e nazioni siano la vera fonte di ricchezza in tutto il mondo. Nello stesso modo in cui aveva sfidato un tempo gli urbanisti professionisti, Jane fa la stessa cosa col pensiero economico conquistandosi il rispetto degli economisti. Scrive anche di etica, dei principi morali che governano i comportamenti umani. La ragazzina a cui il padre aveva insegnato a non fare mai promesse che non poteva mantenere per sempre, prova a studiare cosa accade quando virtù come onestà o lealtà entrano in conflitto con l’ambito dell’economia o della politica.

Jane trascorre l’intera esistenza ben dentro le proprie convinzioni. Energica, non smette mai di osservare, riflettere, sviluppare intuizioni o partecipare alla difesa di cause in cui crede. Dopo la scomparsa dell’amato coniuge Bob nel 1996 continuerà ad abitare nella stessa casa, a pochi passi dal figlio Jimmy e dalla sua famiglia. Tutti e tre i fratelli – Jimmy inventore e fisico, Ned musicista e scrittore, Burgin, artista – restano in Canada con le famiglie. Gli abitanti e la politica del paese apprezza Jane e ne rispetta le idee. Nel 1998 viene insignita dal Governatore Generale del più alto riconoscimento dell’Order of Canada, per «una vita di straordinari risultati e impegno nella promozione della cittadinanza a servizio della nazione». Il 25 aprile 2006, una settimana prima del novantesimo compleanno, Jane moriva a Toronto. Il paese la piangeva come se fosse scomparso un capo di stato, televisione nazionale e giornali le dedicarono titoli di prima pagina e articoli in ricordo della vita e dell’opera. Negli ultimi tempi – anche se non pareva molto interessata a questi riconoscimenti formali e onorari – si erano moltiplicati i titoli. Nel 2007 la Rockefeller Foundation istituisce la Jane Jacobs Medal per premiare chi «Promuove e applica principi di tipo jacobsiano a New York City». In fondo quella borsa di studio assegnata nel lontano 1958 per scrivere un libro sulle città però è forse il migliore riconoscimento di tutti. Dalla pubblicazione, The Death and Life of Great American Cities è stato tradotto in decine di lingue diverse e ha venduto milioni di copie. Non è certo mai comparso nella classifica dei best-sellers ma ha continuato a vendere stabilmente negli Usa in Canada e nel resto del mondo, ripubblicato sin dalla prima edizione che scosse il mondo nel 1961.

estratto da: Glenna Lang, Marjory Wunsch, Genius of Common Sense – Jane Jacobs and the story of The Death and Life of Great American Cities, David R. Godine, Boston 2009 – Traduzione di Fabrizio Bottini – Qui la Seconda e Prima parti precedenti – Vedi anche almeno Edmund Bacon, Riqualificazione urbana un’occasione per le città (1949)

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