La scienza democratica dell’impasto socio-spaziale urbano

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Foto J.B. Gatherer filtri Prisma

Quante volte si sono criticati i progettisti di spazi per la loro totale incapacità (o scarsa volontà, si mormora ogni tanto) a cogliere sia i reali bisogni di chi dentro a quegli spazi ci vive ogni giorno, sia a leggere seriamente e consequenzialmente le loro esperienze e osservazioni dirette. Passano i decenni, si potrebbe dire addirittura i secoli, e pare che chi si avvicina a un tavolo da disegno, a un luogo di decisione, a produrre i luoghi artificiali che poi conterranno l’umanità urbana intenta ai fatti e bisogni propri, la realtà di quei fatti e bisogni propri continui a schivarla, rifugiandosi in grandi categorie dello spirito: dai modelli efficentisti di impresa al leggendario Modulor del razionalismo novecentesco. Intendiamoci, senza teoria, ovvero senza metodi, non si va da nessuna parte, non si può procedere a tentoni fornendo risposte generali che siano la pura sommatoria di quelle individuali, nel complesso calderone collettivo della città, ma come ci ricordava anche uno piuttosto esperto di teorie, Albert Einstein, quando queste non si rinfrescano di continuo e di frequente nel risciacquo con la realtà sperimentale finiscono per ammuffire, per pietrificarsi nella autoreferenzialità spocchiosa che ne annuncia in un modo o nell’altro il tramonto e l’archiviazione. Ma come, assicurare questo continuo e regolare ricambio fra grandi complesse categorie, e micro evoluzioni e innovazioni che ne mutano inequivocabilmente senso e portata?

La lezione del sociologo di strada

A metà ‘900 fu il sociologo William Holly Whyte, a intuire l’indispensabilità di questo ricambio, a fronte del chiarissimo fallimento (chiarissimo a chi non se ne stava a galleggiare sui tavoli da disegno, ovviamente) delle grandi teorie urbanistiche elaborate nei decenni precedenti per la città industriale. Ma dove la sua contemporanea collega, e forse più efficace critica, Jane Jacobs, in sostanza propendeva per un più semplice e diretto ricorso alla lettura empirica dell’impasto di spazio e società metropolitani, Whyte si poneva un obiettivo di più lungo termine, ovvero costruire quel maledetto collegamento sistematico fra il particolare e l’universale, la pratica e la teoria, il rilievo empirico e i modelli interpretativi da cui far nascere le politiche. Mise in campo, assai intelligentemente, il metodo migliore a disposizione: le riprese cinematografiche, certamente non l’unico strumento possibile, ma quello forse più avanzato per restituire materiali sufficienti a innovare la teoria nel senso desiderato. La cinepresa fissa, collocata strategicamente in certi angoli delle vie urbane, e usata come un vero e proprio strumento di prelievo della linfa vitale metropolitana costituita dai comportamenti spontanei, restituiva poi (per chi si fosse dotato prima e poi di una altrettanto strategica griglia di modello interpretativo) «dati» di straordinaria ricchezza, quantitativa e qualitativa. Consentendo di comprendere davvero al volo ciò che non andava e ciò che invece funzionava benissimo, nei rapporti tra le funzioni, gli utenti, gli abitanti, e di dare anche volendo molto più valore e spessore teorico ai paralleli rilievi assai più soggettivi di Jane Jacobs dal davanzale della sua cucina al Greenwich Village. Ma c’era il limite, enorme, del «manico», di nuovo manovrato dall’alto, ovvero di uno scambio squilibrato fra i singoli e il contesto. Un limite a ben vedere solo tecnico, perché la cinepresa poteva essere puntata in una sola direzione, non certo inquadrare contemporaneamente anche l’operatore e il regista.

High-tech partecipato

Oggi, oltre quelle chiacchiere a volte piuttosto ingenue per non dire stupide sulla smart city, che ricalcano il solito percorso dall’universale al particolare, dai decisori ai destinatari passivi delle decisioni, si sta sviluppando una consapevole evoluzione tecnologica e scientifica del metodo di Whyte, denominata significativamente e un po’ autoironicamente Quantified Community. Dove le «quantità» sono lontanissime concettualmente dall’idea sottesa ai cosiddetti Big Data, o quantomeno ne sbilanciano fortemente la sostanza dalla parte dell’utente, dell’abitante, e ancor di più dell’abitante svantaggiato, dei ceti esclusi, di chi da sempre è più penalizzato dalla debolezza della sua voce. Dove non arrivano le correnti rilevazioni statistiche, è in sostanza la tesi di fondo del progetto di ricerca, possono arrivare nuove tecnologie di «sensori locali», e addirittura il consapevole contributo individuale fornito in diretta dalla strada sotto forma di input via telefonino. Là dove la cinepresa di William Whyte riprendeva attori inconsapevoli di scenari sociali urbani, là dove anche Jane Jacobs ricostruiva a tavolino la famosa «danza del marciapiede» del tutto sconosciuta ai «ballerini» abitanti del quartiere, oggi il flusso di informazioni si fa potenzialmente bidirezionale, e lo studioso diventa davvero una specie di semplice tramite fra chi comunica (il cittadino) e chi ascolta, si informa, propone, eventualmente decide (la politica). Non siamo certamente nel campo dell’utopia partecipativa diretta assoluta, ma certamente diversi passi oltre quelle ingenue idee assembleari troppo praticate da ideologi e professionisti del sottogoverno urbano. Se non altro a loro, si possono sostituire degli ottimi sensori elettronici, come ci spiega con dovizia di particolari lo specifico rapporto di ricerca allegato, elaborato sul caso studio di Red Hook a Brooklyn, quello per inciso reso famoso a suo tempo dal film Fronte del Porto con Marlon Brando.

Riferimenti:
Constantine E. Kontokosta, Nicholas Johnson, Anthony Schloss, Red Hook: Urban Sensing and Citizen Science in Low-Income Neighborhoods, Centre for Urban Science and Progress, New York University, settembre 2016 (scarica direttamente il rapporto in pdf via Drive)

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