L’automobilista ha un sogno: evadere dall’abitacolo

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Foto F. Bottini

C’è una lettera all’edizione milanese del conservatore il Giornale che è una bella sintesi dello strabismo con cui di solito i cittadini considerano il problema della mobilità urbana. Si tratta naturalmente di una lettera indignata con le recenti scelte dell’amministrazione comunale, dichiaratamente orientate a scoraggiare la prevalenza dell’auto privata nei trasporti, e nel definire le forme urbane. Denuncia, il lettore, una vera e propria persecuzione nei confronti di chi usa l’auto, parcheggia (o cerca di parcheggiare qualche volta senza riuscirci), va al supermercato a riempirsi il carrello e poi il baule con la scorta grossa.

Conclude, l’indignato signor Pierluigi Bonora: È facile decidere demagogicamente sulle spalle degli altri (…) Il compito degli amministratori sarebbe quello di trovare soluzioni alternative, che vuol dire realizzare, insieme alle piste ciclabili, nuovi parcheggi sotterranei custoditi e a prezzi popolari (non siete di sinistra?).
(“Caro sindaco, senza posteggi le auto in città dove si mettono?” 7 luglio 2013)

Senza entrare nel merito specifico delle anche condivisibili lamentele di questo signore, c’è un aspetto della sua prospettiva di osservazione che va però sottolineato: non è la lettera di un cittadino la sua, ma di un automobilista-cittadino. Ovvero di qualcuno che consapevolmente o no ha deciso prima di prendere una porzione della sua esistenza e dargli un’occhiata più da vicino, poi di proiettarla sull’universo. Deve andare in un posto e quindi trovare parcheggio, deve far la spesa grossa e quindi come fa senza macchina e senza parcheggio per metterla quando gira col carrello? Ecco, è questo osservare rigorosamente la città da dietro il parabrezza che tutti capiamo al volo, che non possiamo in fondo non condividere, ma che forse ci inganna. Pensandoci un istante in più, non possiamo evitare di fare un conto: statisticamente, 23 ore su 24 la nostra macchina se ne sta ferma a far nulla, a occupare spazio spesso pubblico, e quando si muove è (con percentuali simili) a causa di funzioni autoreferenziali. Già: perché autoreferenziali?

Proprio questa sostanziale autoreferenzialità, consolidata da almeno mezzo secolo di urbanistica e stili di vita metropolitani auto-oriented, sta alla base delle domande che si pone il nuovo Piano Urbano della Mobilità Sostenibile adottato dal comune di Milano, con una prospettiva di coinvolgimento dei territori di cintura e oltre. Per capire davvero quanto sia in fondo innocentemente perversa la prospettiva del cittadino indignato che scrive al Giornale, forse conviene fare un lungo passo indietro, e ricordare come quel modo di affrontare i problemi sia stato ufficialmente inaugurato circa un secolo fa da Henry Ford, quando diceva testualmente La città moderna ci ha dato tanto, ma oggi mostra il suo fallimento, e domani non esisterà più”. Va detto che da allora ci si sono messi in tanti al lavoro, per avverare l’interessata profezia del pioniere dell’automobile di massa: architetti, amministratori, creatori di immaginario e di stili di vita. Con il risultato appunto di falsare le nostre prospettive: ragioniamo più da automobilisti che da veri utenti della città.

Così il PUMS si pone delle domande “profonde” sull’organismo metropolitano, sul suo metabolismo, sulle aspettative reali di chi ci vive e lavora. Perché in fondo, ci siamo mai chiesti come mai il centro commerciale extraurbano classico ha tanto successo? Facile: offre all’automobilista un modo rapido ed efficiente per smettere di essere tale. La stessa cosa dovrebbe essere in grado di fare la città, almeno con una quota rilevante di chi la percorre. La logica di un piano quindi deve essere quella di andare oltre la risposta per progetti e opere, offrendo un modello abbastanza discreto da essere a malapena avvertibile, chiamiamolo con un briciolo di autoironia urban mall. L’auto se non serve per scopi di servizio propri la smette di fare l’appendice automatica della vita dell’adulto, e diventa un attrezzo eventualmente da lasciare dove sta, o magari non tenere neppure in casa. Qual’è il contesto dove si può realizzare, o almeno sperimentare e adattare, questo modello?

Proviamo a riassumerlo con alcuni dei punti di forza dell’area urbana di Milano, individuati fra quelli proposti dal Piano della Mobilità:

C’è una rete di trasporto pubblico urbano (infrastrutture e struttura organizzativa) fra le più estese in Italia.

La struttura dell’area edificata è compatta, abbastanza coerente e leggibile, nonostante alcuni interventi recenti di riconversione di ambiti industriali abbiano iniziato a scardinare il tessuto con inserzioni “estranee” (cioè sostanzialmente suburbane a orientamento automobilistico).

Una dimensione territoriale contenuta (paragonata ad altre capitali europee), dove la ciclopedonalità può svolgere un ruolo importante.

Tutto questo fa sì che già oggi la media degli spostamenti interni in automobile sia limitata per oltre la metà ai 2,5 km: giustificano uno spazio urbano strutturato attorno al veicolo privato? Domanda retorica, abbastanza ovviamente. Che consente però di provare a concentrarsi su un paio di punti del Piano, ovvero quelli che non riguardano cose piuttosto scontate come l’uso dei mezzi pubblici in alternativa all’automobile, o il car-sharing ecc. Le strategie al numero 4 e 5 delineate dal Documento di indirizzo metodologico per lo sviluppo del Piano, toccano le questioni legate ai contenitori dei flussi di mobilità, anziché i flussi stessi, ovvero la forma dei quartieri, della città, le dimensioni, le distanze, l’organizzazione generale di ciò che facciamo spostandoci da un posto all’altro o magari restando dove siamo.

Il punto 4 titola letteralmente: Organizzare la nuova viabilità, garantire accessibilità e orientare la mobilità generata dalle trasformazioni urbanistiche prevalentemente verso il trasporto pubblico e la mobilità sostenibile, e pone subito due questioni correlate. Certo è indispensabile da subito gestire i flussi determinati dalla forma della città in modo efficiente, non inquinante, equo per tutte le utenze. Ma contemporaneamente non si può fare a meno di pensare: quelle trasformazioni urbanistiche erano già state concepite in questa prospettiva oppure no? Non sarebbe assai meglio, da qui in poi, riflettere davvero preventivamente, sul probabile tipo di flussi e comportamenti indotti, localmente e su un’area più vasta, da un tipo di quartieri che come diceva lo stesso Piano hanno iniziato a scardinare il tessuto con inserzioni “estranee”?

Il che ci introduce al punto 5, degli adeguamenti diretti sullo spazio fisico, anche se attuati con misure esclusivamente stradali, ovvero le cosiddette Isole Ambientali. Mentre scrivo queste note, i giornali danno la notizia del varo di una Zona 30 kmh interessante complessivamente un’area che dalla ristrutturata Piazza XXV Aprile sulla linea dei Bastioni (dove si insedierà un grande e innovativo centro commerciale dedicato all’alimentazione e ristorazione), estende poi i propri effetti diretti e indiretti sia verso il centro storico che su alcune propaggini della zona direzionale detta Porta Nuova, dall’evidente genesi auto-oriented, nonostante la forte presenza di trasporti pubblici. Sarà certamente interessante, qui, seguire l’evoluzione dei comportamenti di cittadini e city users sull’arco di qualche stagione, per comprendere meglio sino a che punto il Piano riesca a influire davvero sugli stili di vita, anziché imporne alcuni attraverso una nuova rigidità spaziale e di percorsi.

Una sfida importante, soprattutto perché si svolge su uno sfondo di città moderna e di attività economiche importanti, a parecchia distanza dal classico recupero tradizionale delle vie e piazze storiche per lo shopping del sabato, e/o dei tentativi di pedonalizzazione con attrezzature per la sosta. Qui ci si potrebbe allineare a esperimenti internazionali come quelli di New York con la revisione profonda degli standard urbanistici in senso non-automobilistico, o del più recente e noto caso dello Shard londinese di Renzo Piano (7.000 accessi contemporanei teorici, e nessuna piazzola di sosta), e forse anche scavalcarli per la natura organica e complessa della sfida. Che forse introduce anche, indirettamente, anche un tema legislativo di medio periodo: un vero coordinamento fra trasporti e urbanistica, accorpati in strumenti comuni anziché pur virtuosamente accostati. Ma questa, come si suol dire, è un’altra storia.

(questo articolo era stato scritto su richiesta del direttore per il sito di informazione locale Altra Milano, che nel frattempo è sparito dal web; pare lecito ripescarlo)

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