Non scappate come scemi dalla città nella villettopoli per la pandemia

Foto F. Bottini

Se passeggiate per le vie di San Francisco in questi giorni di coronavirus noterete parecchi cartelli che parevano diventati più rari ed evanescenti dell’Abominevole Uomo delle Nevi: quelli che dicono VENDESI o AFFITTASI. Soltanto sei mesi fa notandone uno avrei immediatamente mandato in giro messaggini ad amici che cercavano per trasferirsi. Bisognava sbrigarsi per aggiudicarsi l’occasione di un posto in fila tra tutti quei potenziali acquirenti o inquilini. Oggi sono quei medesimi amici a postare su Instagram le immagini delle proprie appena costruite casette suburbane tra alberi, animali, tanto tanto spazio. Abitare a San Francisco era il sogno impossibile. Oggi il sogno è scappare da lì. È la prima volta dal crollo dei titoli tecnologici del 2000 che sta schizzando alle stelle la quantità di case vuote a San Francisco, mentre diminuiscono mediamente dell’11% gli affitti dei monolocali. E non pare neppure trattarsi dell’ennesima bolla che scoppia: non sono persone che se ne vanno perché hanno perduto il lavoro, né perché i prezzi aumentano per la gentrification sino al punto di farli scappare. Si tratta di chi può permettersi di lavorare a distanza da una località bucolica nella propria magione dotata di collegamento internet e garage multiposto.

Non succede solo a San Francisco. Operatori immobiliari di Florida e Arizona riferiscono di dati e tendenze analoghi. Le città costose stanno perdendo di attrattiva, mentre i centri più piccoli paiono segnare la strada del futuro. Parrebbe una cosa naturale e del tutto innocua. Dopo tutto cosa c’è di male nel cercare un po’ d’aria aperta e spazio per fare una passeggiata? E invece no. C’è tutto il ventesimo secolo a raccontarci di esempi del perché scappare dalle città verso il suburbio o gli ambienti semirurali può rivelarsi un’arma a doppio taglio, anche se all’inizio pare un’ottima idea. Nel primo ‘900 erano tante le grandi città gravate dagli effetti negativi di una rapida industrializzazione: inquinamento, sovraffollamento, igiene, criminalità, pessima e corrotta politica amministrativa. Non mancavano neppure le epidemie: all’alba del secolo scorso a San Francisco, la peste bubbonica riuscì a uccidere cento persone.

Ne derivò una fertile corrente di pensiero utopico che indicava la via di quanto il pensatore britannico Ebenezer Howard aveva definito città giardino nel suo opuscolo manifesto del 1902 Garden Cities of To-morrow [l’Autrice ignora evidentemente trattarsi di seconda edizione rivista e soprattutto con un titolo diverso, ma non spariamo sulla Croce Rossa, n.d.t.]. Quelle città giardino erano centri coordinati e di dimensioni prefissate, realizzati attorno a grandi parchi e abitazioni economiche per chi ne aveva bisogno. Si poteva anche alimentarsi con prodotti locali grazie all’anello di poderi agricoli che circondava la città. Le idee di Howard erano così convincenti che si arrivo con la collaborazione di progettisti a costruire due di questi centri secondo i criteri prefissati: Letchworth e Welwyn, ancora oggi esistenti nella regione di Londra. Entrambi luoghi molto gradevoli, ma non rispondono affatto alla visione di Howard, che intendeva rispondere alla domanda di abitazioni di tutti, ricchi e poveri del paese.

Anche in America durante la Grande Depressione grazie ai finanziamenti della Works Progress Administration si cercò di realizzare alcune città giardino. Come Greenbelt nel Maryland, ricca di servizi sociali per i propri abitanti, anche se oggi tutto è stato privatizzato ed è luogo di speculazione. Si diffondeva comunque la mania delle città giardino di origine britannica negli Usa, e Frank Lloyd Wright ne propose una versione particolarissima che chiamava USONIA acronimo che sta per United States of North America visto che a lui non piacevano le città del Centro o del Sud America. Wright non considerava affatto la sua Usonia una fuga dalla modernità, che al contrario avrebbe liberato il comune cittadino dal «tumore» della metropoli ad alta densità grazie alle tecnologie. C’erano tante nuove invenzioni, dal telefono alla radio alle automobili, e chiunque poteva lavorare pur stando lontano. Vi suona familiare vero?

Alcuni seguaci di Wright poi riuscirono a realizzare un progetto chiamato Usonia nella Westchester County, Stato di New York. Quelle 47 abitazioni sono ancora oggi occupate, collocate ciascuna alla fine di un serpeggiante vialetto, aiuole fiorite e cespugli. Doveva essere un idillio rurale collettivo, futuristico e in costante crescita, economico, accogliente per tutte le fasce sociali. Ma nonostante le prime case realizzate a fine anni ’40, dovettero passare decenni prima che quell’auto proclamata «comunità alternativa» ammettesse una famiglia di colore. Non era l’unico caso, anche la città giardino di Greenbelt era solo per bianchi. E per continuare coi problemi, se le case di Usonia in teoria dovevano essere economiche, in realtà si rivelarono costose sia da costruire che da mantenere, oltre che ancora oggi totalmente dipendenti dall’auto. I giardini che conferiscono quel particolarissimo carattere al luogo fanno a pugni con mezzi di trasporto che sputano gas serra in abbondanza.

Progetti utopici come Usonia sono cosa rara, ma l’idea spaziale di Wright in realtà è diventata il modello per per migliaia di quartieri suburbani americani novecenteschi, con quelle basse casette in stile campagnolo e l’infinito prato all’ingresso. Suburbi che come i loro antenati più utopici sono irti di contraddizioni. Dovrebbero essere democratici e invece escludono e segregano. Come se non bastasse la loro popolazione di pendolari lavorava spesso in quelle imprese che hanno chiuso negli anni ’90. I giovani che se lo potevano permettere da quel suburbio se ne andarono, verso le grandi città dai centri in ebollizione nei primi duemila. Ma oggi il pendolo va nell’altra direzione quando il ceto medio fugge le metropoli preso dal panico della pandemia, di nuovo alla ricerca di spazi non inquinati, per quanto auto-dipendenti. Ma non possiamo certo dimenticarci adesso come sia andata a finire, con le città giardino di sognate da Howard o Wright un secolo fa. Insomma l”utopia della garden city non è affatto una utopia: l arisposta ai nostri problemi non sta nella fuga dai grandi centri. Dobbiamo invece realizzare migliori reti di servizi sociali perché la vita nella metropoli diventi migliore, sicura, sostenibile.

da: The New York Times, 17 agosto 2020 – Titolo originale: Want to Flee the City for Suburbia? Think Again – Traduzione di Fabrizio Bottini

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