Piantiamola coi giochetti sulle terminologie urbane: sprawl è un cancro

Foto E. B. Fisher

Se capitasse, a chiunque tra noi, di leggere un titolo sulla stampa che recita, per esempio «Il cancro è la felicità», avremmo per un istante qualcosa di simile a uno choc, seguito a piacere dalla decisione di passare immediatamente alle vie legali in una causa per patente disinformazione contro chi ha scritto quella robaccia, oppure sconsolatamente constatare per l’ennesima volta il degrado e rimbecillimento del mondo giornalistico nell’epoca del web, sempre a caccia di click automatici e inserzionisti di bocca buona, anche ben oltre la decenza. Per le parole e terminologie specifiche della città, c’è addirittura l’aggravante della malafede, che spesso si somma alla leggerezza e all’ignoranza, producendo una valanga di vera e propria disinformazione, che coinvolge anche chi poi prende decisioni essenziali e strategiche sul nostro futuro. Ho usato strumentalmente la parola «cancro» nel titolo inventato in apertura, perché stavolta oggetto del contendere è il termine «sprawl», che inequivocabilmente ha una vicenda lineare di uso analogo, di pervasivo e soffocante degrado, ma che da un bel po’ di tempo una disinvolta pubblicistica – provocatoriamente o no, non ci interessa qui verificare – prova via via a riconsiderare, rivalutare, ricontestualizzare. E forse, a rischio di annoiare chi queste cose le sa già a menadito, val la pena di ripercorrere nascita e sviluppo del concetto.

Le parole sono importanti

Negli anni ’30, in parte – e per fortuna dal nostro punto di vista – ammortizzato dalla depressione economica, dilaga il fenomeno automobilistico di massa, inteso non solo come crescita esponenziale nel numero di veicoli immatricolati e circolanti, ma soprattutto negli effetti di trasformazione del territorio e delle pratiche sociali ed economiche. Si inizia a percepire, a toccare con mano, cosa possa significare davvero quella «indifferenza localizzativa» già in parte preconizzata da qualche osservatore a cavallo tra i due secoli, profetizzata e auspicata pro domo sua da Henry Ford che sogna la «fine della città», e già ampiamente teorizzata da gente che l’urbanistica non l’ha mai tollerata, in testa al gruppo il pensoso Frank Lloyd Wright che con la Broadacre autostradale immagina una vera e propria invasione degli ultracorpi post-umani sul territorio, a far cosa non si sa esattamente, ma di sicuro dentro un suo elegante disegno, «organico» per autodefinizione. Ed è assolutamente significativo che quasi contemporaneamente (nel 1937, due anni scarsi dopo la provocatoria esposizione dell’utopia antiurbana al Rockefeller Center di Manhattan), un altro architetto, il paesaggista Earle Sumner Draper, incaricato di coordinare i programmi territoriali della Tennessee Valley Authority, ovvero sommariamente monitorare gli equilibri tra ambiente, energia, agricoltura, società, insediamento, pronunci per la prima volta quella parolaccia, scusandosi della volgarità: sprawl. Né più né meno, un cancro che si divora risorse, indotto dalla moltiplicazione degli effetti collaterali dell’auto, dalla finta indifferenza localizzativa che in realtà non è affatto indifferente, basta interrogare nel modo giusto ambiente e territorio.

Sofismi da quattro soldi

La vera differenza, tra la profezia autopromozionale di Wright e il monito di Draper (per molti versi assai più americano) è la natura tutta empirica e direi scientifica di quest’ultimo, ivi compresa la scelta del termine stigmatizzante. Che, si badi bene, non riguarda affatto polemiche teoriche, e resterà tale e quale nella sua natura di marchio di infamia per il lungo periodo del Mito di Suburbia, con cui nessuno si sogna nemmeno per un istante di confondere lo sprawl, pur criticandone anche aspramente qui e là qualche carattere evidentemente deviante, di ordine sociale o ambientale. In altre parole, anche la dispersione insediativa in sé, o qualunque altro carattere organico o parziale, non è giudicata negativamente salvo prova contraria. Sprawl è ciò che in un modo o nell’altro non funziona, fa evidentemente guai, porta dove non dovevamo andare, e pian piano si capisce quel che originariamente si era solo intuito, ovvero che esistono fattori ambientali e sociali, in massima parte indotti proprio da quell’idea meccanica di indifferenza localizzativa, che si combinano malissimo a produrre l’esatto opposto dell’utopia sognata nei disegni dell’architetto pioniere ma borghese e un po’ schifiltoso, con la capanna di tronchi fatta costruire dal popolino manovale e da usare come sfondo per il proprio ego meditante. Nemmeno il fatto che sia brutto è di per sé legato a doppio filo a quella stigmatizzazione, ma lo diventa quando la bruttura è sintomo di qualcosa di più profondo, che sia la solitudine patologica delle casalinghe disperate, o l’indebitamento cronico per il mutuo + automobile + benzina + consumi voluttuari + privatizzazione di servizi che in ambito urbano sono pubblici e di uso collettivo. Ecco: è per questo motivo che ritengo, e sempre riterrò, scandaloso, scrivere cretinate come «Lo Sprawl è bellissimo» in un titolo di rivista: o l’ha scelto un superficiale irresponsabile, o un economista, come si suol dire.

Riferimenti:
Peter Coy, Sprawl Can Be Beautiful—if Cities Learn to Manage Growth, Bloomberg, 10 agosto 2017

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