Possiamo pensare un territorio migliore

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Foto M. B. Fashion

Tutte quelle villette, tutti quei centri commerciali capannoni e uffici sparpagliati dappertutto, sono proprio un disastro? Una fabbrica delle crisi, e se non ci liberiamo di quel modello di sviluppo andremo sempre peggio.  Certo raccontare le cose così vuol dire semplificare un pochino, ma certamente semplificano molto, molto di più i grandi strateghi della crescita a tutti i costi, che riversano fiumi di denaro del contribuente in megaprogetti e programmi che dovrebbero costruire ricchezza, e invece preparano la prossima catastrofe, che si chiami bolla edilizia, o crisi energetica, o cambiamento climatico e via dicendo.

Cose ripetute mille volte da lustri, ad esempio nell’area professionale del new urbanism, in cui prevale la logica dell’approccio di mercato, ovvero di offrire i propri servizi a chi sceglie quel tipo di cultura e contemporaneamente promuoverla con tutti i mezzi. Certo non manca l’attività di lobbying verso la pubblica amministrazione (per esempio a adottare leggi e ordinanze che favoriscono quei progetti), ma la spinta principale è quella di cercare consenso per una proposta.

Interessante confrontare le posizioni di due esponenti di spicco della cultura urbana come Richard Florida e James Howard Kunstler, i quali sostanzialmente concordano nell’identificare come potenziali elementi di crisi (che si manifesti in forma economica, sociale, energetica ecc.) tutti quei rivoli del modello di sviluppo che fanno in un modo o nell’altro capo alle componenti dello sprawl, senza da particolarmente peso all’ambiente, considerato variabile di secondo piano.

Secondo Kunstler: «Tutti i costruttori, enti che finanziano mutui, agenzie immobiliari, stanno lì ad aspettare che finalmente tutto torni com’era nel 2005». Tutto il denaro pubblico iniettato a stimolo dell’economia, direttamente o indirettamente finisce per dargli ragione, a questi signori: automobili, benzina, mattone, asfalto, sembrano ancora le basi degli investimenti solidi. Magari escludendo cocaina e pistole con la matricola limata, naturalmente.

Si tratta di un fenomeno certo americano, ma anche mondiale: tanta parte dei grandi investimenti a sostegno delle economie sono convogliati verso le infrastrutture, e ad esempio l’agenzia europea per l’ambiente individuava in quei corridoi le più forti tendenza alla dispersione urbana, denunciando come si trattasse di una Sfida Ignorata. La particolarità del caso americano è forse che il new urbanism insieme ad altri movimenti di tipo ambientalista, politici, culturali, prova a convogliare un messaggio positivo e propositivo al mercato in senso ampio, mentre altrove la denuncia resta tale, oppure assume certi toni moralistici e sottilmente autoritari, del tipo non consumiamo più, torniamo alle sane abitudini dei nonni, eccetera eccetera. Ottime intenzioni, si intende, ma pare proprio non esista metodo migliore per spaventare a morte il cittadino medio, figuriamoci quello che in altrettanta buona fede aspetta (insieme agli immobiliaristi) che passi la nottata e si possa tornare a comprarsi la villetta, il Suv per andarci la sera guardando l’ingordo dall’alto, e il sabato la grande festa al centro commerciale.

La domanda da farsi è quindi: se un pochino funziona l’approccio positivo e propositivo, e se siamo in una cultura globalizzata, perché non dovrebbe funzionare ovunque, allontanarsi un po’ dal solo catastrofismo dalla denuncia urlata, dalle puntigliosee tabelline recitate ai convegni davanti al pubblico dei devoti (che poi usciti da lì magari ne combinano di tutti i colori all’ambiente vero)? C’è una miriade di possibilità per comunicare un’idea di sviluppo diversa, ma c’è una premessa: bisogna averla, questa idea. E prima ancora c’è bisogno di elaborarla, perché non basta la solita sparata a caso del lasciate le macchine in garage, o facciamo la città a misura d’uomo, o spegnete la luce perché se no ci vogliono le centrali nucleari, e via storpiando. Con tutti gli schematismi e le rigidità di questo mondo, più altre importate da altri mondi immaginari, in fondo gli architetti dei CIAM all’inizio del secolo scorso un’idea generale ce l’avevano, a sua volta derivata dalle culture delle avanguardie artistiche. La città moderna di le Corbusier ce l’abbiamo ancora tutti negli occhi, a volte abitiamo anche dentro a qualcuno dei suoi esperimenti pratici a dir poco imperfetti, o riusciti a metà. Quella era un’idea. Milioni di abitanti, macchine, energia, infrastrutture, modelli produttivi e abitativi, per il tempo libero. Adesso al massimo qualcuno dice che faceva schifo, e poi tira fuori dal cappello certi progettini per una manciata di privilegiati, che per inciso paiono ambientati nei cartoni animati di Heidi. Ma per favore!

Interessante il caso dell’Australia, dove lo sprawl suburbano nonostante ci sia a disposizione uno spazio sterminato, ha una pessima fama. La Broadacre City di Frank Lloyd Wright fondata sugli spazi privati e l’automobile lì ha davvero avuto modo di dispiegarsi in tutta la sua potenza sociale, se non nelle forme architettoniche (in fondo orpello secondario del grande successo del modello). Dopo la seconda guerra mondiale tutto lo sviluppo economico e insediativo è avvenuto all’insegna del modello locale fatto di grosse automobili, giardini per fare le grigliate, steccati bianchi o di altra tinta attorno a ville unifamiliari immerse nel verde. Ricorda qualcosa? In fondo basterebbe cambiare il tipo di vegetazione, e metterci qualche canguro, per riprodurre identiche immagini come quelle dei video che negli anni scorsi hanno fatto il giro del pianeta accompagnando il trionfo di Suburbs degli Arcade Fire. Poi dai sogni ci si sveglia, spesso con postumi e sudori freddi.

Qualche osservatore particolarmente acuto, già a metà del ‘900 trovava elementi inquietanti in quella non-campagna che voleva essere anche non-città. Nessuno all’epoca si sognava neppure, problemi come il traffico cronico da pendolarismo coatto per ogni cosa, o l’impennarsi delle bollette energetiche, o il trasformarsi di certe esistenze in una specie di complemento in perenne orbita attorno alla casa, l’arredo, la manutenzione, i figli a scuola, a tennis … Eppure qualcosa non convinceva. Cosa ancora oggi difficile da capire, ad esempio per certi osservatori fortemente legati al modello del localismo, quando a venire meno sono proprio i luoghi, le relazioni dirette degli abitanti con l’immaginario, l’economia legata allo spazio locale eccetera. Mentre il modello suburbano, fisico e non, è la negazione dell’identità, accompagnata dalla proposta di costruirsene una personalizzata, che però in quanto solo individuale e basata sui consumi è del tutto senza senso. C’è un modello alternativo? Come pensano alcuni senza troppa fantasia, forse tornare a fare il contadino ottocentesco? Figuriamoci: saremo stressati, o anche disperati come le note casalinghe suburbane di Wisteria Lane, ma di sicuro – con qualche dovuta eccezione – non siamo mica scemi!

Ma una rassegna delle le proposte alternative, si tratti delle varie declinazioni di new urbanism, o dei neolocalismi, o del filocatastrofico movimento transition town, addirittura di certe città nuove degli archistar che evocano alla lontana le Corbusier o Wright, tutto pare guardare al passato. Almeno, questo il messaggio che prevale nella ormai sterminata pubblicistica di settore: una delle prime immagini scelte per le iniziative promozionali dell’Expo milanese 2015, era una cascina tradizionale della campagna lombarda. Certo, l’idea postmoderna di agricoltura può stare al centro di una nuova immagine di metropoli che nutre il pianeta. Ma se poi si ascoltano certi spot pubblicitari sui farmers market, vediamo scorrerci davanti tutto il campionario ruralista, musichette folk incluse nel prezzo. Naturalmente esistono poi anche iniziative e movimenti davvero postmoderni, ma non pare che complessivamente si arrivi a costruire un’idea compiuta in grado di far sintesi, immagine vincente, contro quella vetero-urbana energivora, stressante, che però ci toccherebbe accettare come «prezzo da pagare» al nostro tenore di vita. Pensare che gli stimoli non mancherebbero di sicuro, a partire dall’agricoltura urbana propriamente detta (non quella metropolitana di greenbelt su grandi superfici) ad alta tecnologia e organizzazione del lavoro necessariamente rivoluzionaria. Oppure dalla correlata rivoluzione spaziale, urbanistica, ecologica e produttiva determinata dall’idea delle infrastrutture verdi, se le si accoppia a un altro fattore dirompente come la nuova fauna urbana.

A questo proposito, spesso si legge del terrore seminato in qualche quartiere o settore metropolitano dalle specie selvatiche che lì hanno trovato (o mantenuto se si tratta di zone urbanizzate dove già abitavano prima) casa, prede o predatori. Tutti vicini un po’ speciali di altre «etnie», a cui in definitiva tocca fare il callo, scordandosi tutti i metodi di gestione della città tradizionale o della campagna, quando o li si allontanava a pallettoni, o al contrario li si considerava in modo stravagante: prima giocattolo domestico, poi magari qualcosa di orribile degno delle reazioni più isteriche.

Di idee innovative e comprensive c’è davvero un gran bisogno, perché non si può di sicuro andare avanti così. C’è l’immagine della città tradizionale storica e/o terziaria, attorno una immensa fascia discontinua di villette e centri commerciali, la campagna intensiva e industrializzata, magari lontanissima, migliaia di chilometri, più qualche giocattolino detto parco o area naturale. Dall’altra una miriade di sedicenti alternative che alternative non sono affatto, per il semplice motivo che non fanno mai sistema. Una delle più stravaganti notizie sulle reazioni al cambiamento epocale è quella di un’ex stazione climatica costiera britannica messa in ginocchio dallo sprawl. Chi viene chiamato per risolvere il problema? Un esperto di vetrine! Alla faccia della soluzione parziale.

Non è una barzelletta, ma una cosa serissima. C’è l’ennesimo ex villaggio di pescatori diventato località turistica, con il solito sviluppo edilizio a nastro, che cresci male e ricresci peggio, alla fine partorisce il suo assassino, sotto forma di grande centro commerciale. Ovvio che nell’ambiente più adatto del suburbio disperso queste cose spuntino come funghi, e tanti saluti alle attività ed esercizi tradizionali del centro. Il consulente esperto di negozi serve a rilanciare immagine e sostanza dell’offerta locale, però già ci si può immaginare sia la parzialità dell’idea che può esprimere, sia il quasi certo sapore old-fashion che avrà il progetto finale. Forse, in questo come in tanti altri casi, unendo vari filoni di riflessione e progetto in un’idea forte si potrebbe imboccare la direzione giusta, mescolando al meglio la dimensione globale con quella locale. Ma appunto bisogna pensarci, e il pensiero non pare una risorsa così abbondante.

 

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