Robert Bruegmann, Come le politiche anti-sprawl discendono da quelle anti-densità (2005)

È soltanto nel ventesimo secolo, in realtà, e più precisamente nella seconda metà del ventesimo secolo, che si prova con vera sistematicità a fermare lo sprawl. E vale la pena di ripercorrere tutta la vicenda sin dal principio con le sue curiose divagazioni e paradossi. Uno dei più singolari sta nel fatto che gli interventi pensati più recentemente per contrastare la dispersione urbana a bassa densità paiono assai simili a quelli escogitati un centinaio di anni fa a combattere il degrado delle zone ad elevata densità detto Blight. Una parola che ha le sue origini nell’orticoltura e si riferisce a un microscopico insetto parassita delle piante. Nel diciassettesimo secolo in termine entra nel linguaggio comune usato in senso più generale a significare «una malefica influenza di non individuabile misteriosa origine». Alla fine del diciannovesimo secolo blight è usato a descrivere il modo in cui i densi e sovraffollati quartieri urbani sembrano una coltura di patologie fisiche e sociali, conflitti, criminalità. Ne è convinto Lawrence Veiler militante del movimento per le case economiche quando a un convegno urbanistico negli anni ’20 definisce blight «un cancro civile che si deve amputare con un bisturi chirurgico».

Implicitamente ma non troppo si considera quindi questo degrado urbano il prodotto di una patologia esterna che deve essere rimossa da un tecnico esperto, nel caso specifico l’urbanista, per restituire la salute all’intero organismo. All’inizio del ventesimo secolo la necessità di ridurre il sovraffollamento nei centri città era in genere posta in cima ai problemi urbani da affrontare, da architetti urbanisti e altre professioni. Nelle forme più estreme emergevano anche le opinioni di chi pensava alla totale scomparsa della città antica sostituita da un generale decentramento. Indubbiamente il più noto sostenitore di questa radicale dispersione fu Ebenezer Howard, modesto impiegato amministrativo britannico che al volgere dei due secoli proponeva il concetto di «Città Giardino». Howard intuiva che la città industriale fosse ormai obsoleta. Il suo modello di città giardino a densità piuttosto basse si sarebbe realizzato oltre i limiti urbani ad alleviare il problema della crescita nel sovraffollamento da un lato, e dell’impoverimento culturale delle campagne dall’altro.

Unità di Vicinato nel County of London Plan 1943; elaborazione grafica di Antonio Galanti

Si immaginavano comunità autosufficienti di dimensioni contenute, e separate da altri insediamenti simili da una fascia di interposizione agricola, ciascuna di esse collegata alla metropoli centrale con strade e ferrovie. Idealmente le dimensioni di un insediamento del genere erano di trentamila persone su una superficie urbana di quattrocento ettari e una greenbelt agricola di altri duemila ettari in cui risiedevano duemila abitanti. La comunità possedeva le superfici in forma indivisa concedendole in diritto ai cittadini. Autogoverno e autogestione, dotazione di ogni servizio sociale, tutto finanziato dall’incremento di valore dei terreni. Una vera e propria utopia definita in ogni dettaglio pratico operativo. I testi e diagrammi inseriti nelle edizioni successive del libro di Howard e altre pubblicazioni analoghe ebbero uno straordinario impatto sulla cultura urbanistica occidentale.

La polemica contro la città troppo densa veniva ripresa dall’architetto tedesco Bruno Taut, autore di un testo intitolato La Dissoluzione delle Città; i «disurbanisti» russi volevano sostituire all’urbanizzazione tradizionale nuove forme, come l’insediamento lineare lungo le vie di comunicazione; la proposta forse più radicale fu quella dell’architetto americano Frank Lloyd Wright che auspicava una Broadacre City in cui disperdere sul territorio l’intera nazione americana a densità bassissime, basandosi sull’automobile e piccoli veicoli volanti concepiti come elicotteri individuali. Nessuna di queste idee produsse risultati concreti di qualche entità. Hanno invece prosperato alcuni modelli semplificati di città giardino. L’idea di una ben conformata cittadina utopica, definita da una fascia di interposizione verde, con una mescolanza di residenza e attività economiche, molti parchi e giardini, industria e agricoltura insieme, ispira da molto tempo il riformismo urbano.

Il medesimo programma che dal principio del ventesimo secolo ispira le città giardino britanniche di Letchworth e Welwyn, o quelle americane del piano Greenbelt Town, come Greendale in Wisconsin o Greenbelt in Maryland; o ancora nel dopoguerra statunitense Columbia in Maryland e Reston in Virginia, fino ai progetti del New Urbanism negli ultimi decenni. Si tratta di un senso comune accettato da urbanisti e sostenitori della smart growth. E il fatto che gli interventi a contrastare il blight del sovraffollamento da troppo elevate densità, assomiglino così tanto a quelli contro lo sprawl a bassa densità, fa pensare che sin dal principio tanti esperti fossero convinti di aver trovato la chiave giusta per risolvere comunque ogni problema urbano. Si trattava di applicarla identica a qualunque caso correttamente individuato. Ma nella pratica nessuna delle teorie sulla forma ideale di città ha mai funzionato nel modo in cui pensavano i sostenitori. Se fosse riuscito il programma del Movimento per la Città Giardino ad esempio, e ne fossero state realizzate a sufficienza a contenere una quota significativa della popolazione londinese, si sarebbe prodotto un territorio punteggiato di centinaia di piccoli centri, ciascuno con una fascia di interposizione, ricoprendo chilometri e chilometri quadrati di campagne.

Uno sprawl gigantesco e inevitabile viste le densità immaginate dal programma di Howard, con duemila persone insediate ogni chilometro quadrato, più o meno come in tanto suburbio americano. Visto che una cittadina di trentamila abitanti non riesce a offrire molta varietà di occasioni di lavoro, tempo libero, culturali, gli abitanti devono o rinunciarci, oppure scegliere di spostarsi verso quelle della grande metropoli. Ne deriva una struttura insediativa discontinua a bassa densità policentrica certamente diversa dal tipo delle regioni suburbane americane di oggi, ma che poi senza i limiti del reddito o mobilità finisce per assomigliargli molto di più. La cosa non sorprende visto che il pensiero riformista non poteva certo risolvere le tensioni sociali presenti ovunque, fra l’aspirazione all’autosufficienza e forme urbane definite, e l’aumento delle occasioni e adattamento a condizioni mutevoli. Né contraddizioni interne né problemi di applicazione paiono aver scoraggiato gli innovatori urbanistici che tentavano di attuare nella pratica le idee di Howard. Ma nonostante tutto questo impegno culturale e tecnico in realtà la popolazione del mondo occidentale non ha mai accettato il concetto della città giardino, se ne sono realizzate pochissime.

Quelle costruite poi si sono evolute non in quanto insediamenti autosufficienti ma suburbi dipendenti dalla grande città. Anche la filosofia più generale di Howard si è dimostrata in gran parte inefficace, l’obiettivo di ridurre le densità nel centro della città esistente convogliando popolazione verso insediamenti pianificati ai suoi margini rimase l’orizzonte di gran parte della cultura urbanistica almeno sino alla fine della grande crescita successiva alla seconda guerra mondiale. Alla fine di questo periodo le densità iniziarono a crollare drasticamente in tutti i centri città del mondo sviluppato. Ma ciò non si doveva all’azione degli urbanisti bensì ad altri fattori, di cui il più importante resta probabilmente uno spettacolare incremento del reddito disponibile. Ciò è dimostrato dal fatto che le densità decrescono più rapidamente nelle città statunitensi che presentano la maggiore crescita economica a fronte di una minore attività urbanistica di area vasta, rispetto a ciò che succede in Europa, ovvero l’opposto. E comunque appena possono permetterselo tutte le famiglie iniziano a riversarsi fuori dalle zone urbane più dense, verso insediamenti esterni sparsi.

da: Sprawl – A compact history, University of Chicago Press, 2005 – Titolo originale del capitolo: Early remedies: from anti-blight to anti-sprawl – Estratti e traduzione a cura di Fabrizio Bottini

vedi anche F. Bottini, Wilmaaa: dammi lo sprawl!

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