Spazi e comportamenti sono una cosa sola

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Foto M. B. Fashion

Una delle cose più orrende dei nostri tempi è la polarizzazione, tutto di qua, tutto di là, metteteci insieme la divergenza tra valore d’uso e valore di mercato, e si sarà già formato un quadro essenziale di quel che variamente (e con varie, spesso folli, valutazioni persino etiche) oggi si suol definire gentrification. Ovvero spazi urbani che un tempo parevano non valere assolutamente nulla, ma che grazie a un maquillage più o meno profondo e al qualificarsi come molto di tendenza finiscono per risucchiare ogni aspettativa del cosiddetto mercato della domanda e dell’offerta. Mentre nel frattempo altre zone prima assai apprezzate scivolano a loro volta verso un valore tendenzialmente zero, magari in attesa che si manifestino analoghi meccanismi. Nell’allegro sadico mondo della speculazione sulla pelle del prossimo, naturalmente si sostiene che tutto dipenda dai «gusti del consumatore», a cui gli operatori rispettosi si limitano ad inchinarsi, stendendo tappeti rossi dietro pagamento di adeguato compenso per il proprio modesto contributo a sistemare un po’ le cose. E la parolina chiave che oggi riecheggia nel mondo, quella che schiude ogni genere di iniziative e il loro esatto contrario, è: Millennials. Adulti giovani (fascia 18-36 anni) mediamente in grado di guadagnarsi il pane con le proprie forze, a cui vengono attribuiti via via bisogni e gusti prevalenti, di cui certi ambienti fisici e offerte di servizi dovrebbero costituire il contesto ideale.

Urbanistica creativa

In principio ci sono la smaterializzazione postindustriale e il nativismo digitale, più o meno. Vale a dire che questa fascia demografica si ritrova ad esprimere contemporaneamente bisogni, professioni, stili di vita un po’ meno legati di prima al rapporto fisico diretto con le cose, e a farlo con la spontaneità e facilità di chi conosce dalla nascita gli strumenti adeguati, ovvero i vari trabiccoli di comunicazione, annessi e connessi. Diciamo così, una generazione che si occupa un po’ (molto) meno di produzione ma molto di più di servizi, sia dal punto di vista del lavoro che dei consumi, e che manipola con molto più entusiasmo computer e smartphone, rispetto a telai, torni, automobili. C’è anche qualcosa in più, nel loro stile di vita a quanto pare molto auspicato e perseguito, ed è un prolungamento (non si sa se indefinito o fino a un certo limite ancora tutto da capire) di comportamenti che sinora venivano legati alla fase adolescenziale, molto stare in compagnia, molto stare fuori casa, molto trovarsi qui e là per gruppi ad assetto variabile, e la cosa anche qui vale sia per il lavoro che per le relazioni di tempo libero, contando anche che i due aspetti finiscono per confondersi, vuoi nello spazio (il lavoro a casa, al bar), vuoi nel tempo (non si timbra il cartellino, non si comincia né si finisce mai precisamente di lavorare e svagarsi). La cultura del progetto urbano ha iniziato per gradi fin dagli anni ’80 a elaborare nuovi concept a scala di alloggio, quartiere, reti, rivolti a questa fascia oggi maggioritaria di consumatori-utenti, in pratica rielaborando per l’ennesima volta l’idea di vicinato integrato, in varie direzioni.

Dall’élite alle masse

Ci sono due grossi limiti a questa pur ricchissima elaborazione: il primo è che si parte da un approccio molto molto elitario, con le primissime trasformazioni urbane per maghetti della finanza negli anni ’90 per esempio nei quartieri ex industriali londinesi, in forma di residence vicino ai posti di lavoro, e poi alle prime gentrification massicce nel medesimo senso di quartieri esistenti; il secondo limite è che non si ritiene di dover rispondere al un vero «bisogno sociale», di cui alcune avanguardie si fanno carico per prime, e ne è testimone l’infinita serie degli studi che «aspettano al varco» i millennials quando decideranno di mettere su famiglia, e dovranno (per forza, secondo queste ricerche) recuperare la tradizione suburbana di chi li ha preceduti, perché i figli sono figli e richiedono a quanto pare la villetta con giardino, annessi e connessi. Questa piuttosto stravagante e reazionaria convinzione, ha sinora di fatto bloccato il mercato, nel senso che si agli operatori che le pubbliche amministrazioni hanno continuato a considerare quei quartieri innovatici come delle specie di prolungamento di un dormitorio da college in forma di pezzo di città, in cui non si studia ma si abita sul serio, senza prendere spunto per politiche urbane un po’ meno episodiche. Ne nasce anche un relativo disinvestimento nei confronti di altre aree, segnatamente i suburbi di prima e seconda fascia, che diventano via via ricettacolo di chi non può permettersi quei costosi giocattoli urbanistici, e «torna alle scelte dei padri» più per forza che per convinzione. Ma pare (pare) che anche nel mondo degli operatori si stia iniziando a delineare che la questione va oltre il singolo recupero o riuso o trasformazione speculativa per giovani ricchi emergenti delle nuove professioni. Si tratta di ripensare gradualmente sul serio città e territorio, e farlo alla luce di una seria riconsiderazione sociale, ambientale, spazio-temporale, e ovviamente alla luce di tante altre trasformazioni nel campo dell’energia, dei trasporti, delle telecomunicazioni, dell’alimentazione, degli equilibri città-campagna. C’è solo da sperare che si sbrighino anche le pubbliche amministrazioni, a mettere in campo politiche coerenti.

Riferimenti:
Avison Young, Millennials and re-urbanization of the city, rapporto agosto 2016

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