Una Città – Soggettivamente – Femminista

Foto F. Bottini – Piazza E. Bottini

«Il posto di una donna sta in città» Gerda Wekerle, docente di studi ambientali alla York University di Toronto, nei primi anni ’80. La città, sosteneva, può in particolare favorire una esistenza femminile sia nella sfera domestica che in quella economica. Dal punto di vista sia culturale che prestazionale l’ambiente urbano offre le libertà e opportunità (oltre ai servizi collettivi essenziali) che servono specificamente alle donne. Oltre trent’anni dopo, Leslie Kern (che aveva chiesto sostegno a Wekerle per la tesi di dottorato) iniziava a scrivere un libro dal titolo Feminist City: Claiming Space in a Man-made World, che è uscito lo scorso luglio 2020 negli Stati Uniti.

Nell’introduzione, Kern ripercorre la storia dell’idealizzazione della città come sfogo dell’anelito delle donne a sfuggire al confinamento delle mura e del lavoro domestico. Il concetto ottocentesco del flâneur che passeggia senza meta definita nelle vie abitando lo spazio pubblico, è l’immagine stessa della città moderna. Ma nella letteratura si tratta quasi sempre di un uomo, anche se più recentemente — come Lauren Elkin nel 2016, Flâneuse: Women Walk the City in Paris, New York, Tokyo, Venice and London — si è provato a declinare la flânerie verso la descrizione della particolare libertà offerta da quello spazio alle donne. Scrive Elkin, che la città è un posto dove «cercare fama fortuna o anonimato … liberarsi dall’oppressione … dichiarare la propria indipendenza». Anche Kern riconosce come la città offra alla donna possibilità di scelta «che non hanno precedenti nei piccoli centri o nell’ambiente rurale. Occasioni di lavoro. Liberazione dalle rigide norme comunitarie di genere. … Possibilità di abbracciare cause politiche o sociali … Partecipazione alle arti, alla cultura e comunicazione». Però, aggiunge Kern, anche nella città esiste l’oppressione.

Prosegue, Kern, passando in rassegna la sfida di spostarsi nello spazio urbano in quanto donna da varie prospettive  —  quando si aspetta un bambino o lo si accompagna piccolo, quando si manifesta, quando si sta in compagnia di altre donne. Esiste una sorta di esclusione infrastrutturale tra fermate del trasporto pubblico e orari, tutto concepito attorno a un utente pendolare non disabile su orari di ufficio, non incinto, che non si ferma mai sulla strada a far la spesa o all’asilo o all’ambulatorio. La donna paga anche una tassa rosa in quanto più dipendente dal trasporto pubblico dei maschi, dove ogni mese spende di più, specie quando è la principale erogatrice di servizi alla persona e alla famiglia. Poi esiste l’esclusione psicologica: la donna deve sempre mettere in conto l’aggressione ai propri gesti quotidiani attraverso lo spazio pubblico, il prezzo psicologico (probabilmente anche economico se calcoliamo cose come prendere il taxi per sicurezza o scegliere di abitare in un edificio con custode). In altri termini la città è il centro del capitalismo e delle diseguaglianze reali, progettata attorno a un essere umano del tutto particolare: bianco, maschio, di ceto medio-alto, senza nessuna disabilità.​«Gli ambienti urbani riflettono la società che li ha concepiti – scrive Kern – dai giubbotti antiproiettile ai tavoli da cucina, dallo smartphone alle temperature degli uffici [tutto è] prefissato su misura per il corpo e i bisogni maschili».

La donna in quella città non sta perché essa può offrirle qualcosa ma nonostante. Ma come sarebbe allora – si chiede sempre Kern – una «città femminista»? Fondamentalmente quella che si cerca di immaginare è più inclusiva, tiene conto dei bisogni materiali e culturali dei suoi componenti più marginali. E per empatia verso chi sperimenta da sempre la propria vulnerabilità sulle strade, dal trans al disabile, Kern attinge all’esperienza della gravidanza e della maternità, dello scontro con le barriere sulle vie, sui mezzi di trasporto, nei cortei di protesta, di notte, nei bagni pubblici. Riflettere così soggettivamente a volte mette davvero a disagio. A volte ragionare sul timore che la città ispira in una donna, su come si sia appreso «a non fidarsi dello spazio pubblico» tradisce una personale inclinazione implicita a pensarsi come bianca. Che emerge evidente per esempio delineando un città più libera ed inclusiva: «Darei soldi o da mangiare a qualcuno che è senza casa? … manderei mio figlio a scuola in un quartiere razzialmente misto». Questioni anche serie, ma che forse mettono in dubbio l’affidabilità della narrazione di Kern, la sua geografia delle vittime di una oppressione materiale.

Molte critiche alla vita urbana riflettono una cultura personale che valuta lo spazio individuale, già di per sé una forma di privilegio. La paura di pranzare da sola in un ristorante a Chicago o ad Atlanta, passando tante volte davanti all’entrata e sbirciando dentro prima di decidersi, ad esempio, mette in imbarazzo. Non si capisce bene quale sia il timore di chi o che cosa, anche se ci si può immaginare magari un personaggio un po’ folk, un poveraccio probabilmente non bianco. Molte osservazioni e critiche di Kern non escono dalle esperienze personali, e vale qui la pena osservare che una vera città femminista non possa essere per definizione pensata per la donna al potere. È invece equa ed economicamente giusta, il lavoro è distribuito, i servizi pubblici sono accessibili. Kern prende esempi da Newark, New Jersey, all’inizio dei duemila, dove madri della comunità nera si impegnavano in pratiche «homemaking» allargate al di fuori della propria abitazione, ad una maternità collettiva e al portare domesticità dentro la sfera pubblica, alla rivitalizzazione di centri e spazi culturali per ampliare il senso di comunità. Nel 1999, il sistema di trasporti pubblici di Vienna ha rilevato le donne utenti e i loro bisogni successivamente riprogettando «aree di promozione della mobilità pedonale» e creando «complessi residenziali del tipo immaginato dall’architettura femminista» dotati di asili e facile accesso a trasporti e sanità. In Namibia, la Shack Dwellers Federation offre ai suoi appartenenti «sicurezza abitativa consentendo alle donne migliore accesso ai servizi e alla possibilità di reddito». Certamente cose del tutto normali in una città equa e davvero human-friendly.

Non esiste a parere di Kern «nessun progetto definito di città femminista»: si tratta di un processo attivo e costante di costruzione. Senza pero che si faccia riferimento a quei casi studio con la medesima decisione dedicata ai problemi delle donne nello spazio pubblico. Se scrivesse oggi il suo libro potrebbe ispirarsi all’esempio del campo Occupy City Hall di New York (poi ribattezzato Abolition Park) pensato come risposta all’omicidio di George Floyd. È facile aderire all’ideologia della protesta, ma può risultare assi più interessante la sottesa organizzazione: come ci si mantiene, i dettagli più o meno definibili che uniscono gli individui a una collettività abbastanza nebulosa. L’organizzazione di Abolition Park, dal 23 giugno 2020 con lo scopo di convincere l’amministrazione di New York City Council a tagliare i fondi alla Polizia per un miliardo di dollari, si traduce in un diverso messaggio dopo che il consiglio approva il proprio (deprimente) bilancio il 30 dello stesso mese. Fino al 22 luglio, data dello sgombero all’alba del campo, centinaia di persone si insediano a City Hall Park per un mese con tende, biciclette, scorte di cibo e cartelli attorno alla stazione della metropolitana Brooklyn Bridge in uno spazio delimitato dai contestatori.

Il messaggio abolizionista dei finanziamenti non è chiarissimo, mi pare, ma nella mia esperienza lì a cavallo tra fine giugno e inizio luglio ho sperimentato grande consapevolezza della necessità di badare gli uni agli altri, essere parte di una comunità, cercare di organizzarsi coerentemente. In qualche senso gli occupanti di City Hall sperimentavano una vulnerabilità simile a quella descritta da Kern per le donne, dal bisogno di sicurezza al sovraccarico di lavoro domestico. «Una città femminista è centrata sulla cura, non tanto perché essa si debba basare sulle donne, ma perché è la città stessa a renderla potenzialmente pervasiva e diffusa» scrive Kern. Gli occupanti di City Hall sono persone molto diverse. Parecchi appartenenti alle minoranze, di colore, sensibili alla questione della vulnerabilità, al lavoro collettivo necessario al sostegno del campo. Moltissimi senza casa a New York. Volontari si distribuivano il «lavoro domestico» di bucato e cucina, assicurando a tutti pasti e posto per dormire.

Guide autorizzate accompagnavano le persone ai bagni e docce in un posto convenzionato lì accanto, evitando molestie aggressioni o arresti. In uno spirito di non-discriminazione, e di resistenza alla logica proprietaria, ci si offriva di sostituire le cose eventualmente rubate (telefoni e computer) anziché espellere i ladri. Dormire in uno spazio pubblico è un gesto di resa e rischio, anche se da molti affrontato consapevolmente per scelta, e qualcuno montava la guardia mentre altri riposavano. Si organizzavano pulizie collettive quotidiane. Nei casi di molestie o aggressioni c’era un comitato di donne a tutelare le vittime ma espellere i responsabili solo dopo aver raccolto risorse adeguate, cibo, soldi, coperte. Non mi è successo di vedere bambini, ma credo che se ce ne fossero stati sarebbero diventati una delle priorità.

Tutti questi comportamenti e atteggiamenti, per quanto appaiano minori e individuali, operano in una direzione assai importante: un’idea di come sarebbe la città se ponesse al centro i bisogni di chi è più vulnerabile. Insediandoci in uno spazio pubblico siamo sempre vulnerabili: ci sdraiamo, spargiamo attorno le nostre cose, in genere ci troviamo in condizioni variabili di vestiario e pulizia. L’organizzazione del campo contro tutte le previsioni finisce per ispirare e rafforzare i newyorchesi nella partecipazione al progetto collettivo, alla cura degli spazi comuni per mantenere tante persone in sicurezza e farne una priorità. Mi piace pensare che possa essere questo il senso di una città femminista, dove mangiare, i lavoretti in casa, la sicurezza, la pulizia, diventino cose distribuite tra tutti equamente, dove il benessere di ciascuno – specie i più emarginati – diventi responsabilità collettiva. Così come successo con Occupy Wall Street, anche questo movimento ha suscitato parecchia perplessità. Che sia per la coerenza relativa del messaggio così come diffuso, ma possiamo capirne certamente le potenzialità in termini di placemaking, di vera e propria «costruzione di una casa» evidenziate. «Basarsi totalmente sullo Stato per trasformazioni radicali è una perdita di tempo» conclude Kern. E ha ragione: il contenitore esterno della città, il progetto, le politiche urbane possono arrivare solo sino ad un certo punto nella costruzione della nostra casa. Il resto è faccenda di immaginazione e costante creazione.

da: In These Times, agosto 2020 – Titolo originale: What Would a Feminist City Look Like? Traduzione di Fabrizio Bottini; chi avesse interesse al libro Feminist City di Leslie Kern che costituisce in sostanza il riferimento centrale di questo articolo può anche richiedere il pdf attraverso i canali di comunicazione email del sito 

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