Urbanistica della metropoli ricca e sostenibile

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Foto F. Bottini

Mito incrollabile:The Man With A Plan, condottiero alla testa delle masse amorfe, che riesce a plasmare in forme e orientamenti riconoscibili. Se non altro con la mediazione della delega, politica, scientifica o tecnico-specialistica, variamente intesa. Nell’intricato garbuglio del pianeta che si urbanizza così disordinatamente, con effetti tanto pericolosi e incontrollabili sull’equilibrio climatico e ambientale, poi, l’idea che qualcuno ricomponga, o recuperi almeno qualche bandolo di matassa, parrebbe del tutto auspicabile. Posto però che la mediazione della delega sia efficace, magari un pochino di più rispetto a quella concessa a certi demiurghi del secolo scorso. Perché forse sarà una coincidenza casuale, forse no, l’ascesa di una certa idea di “coordinamento della complessità urbana” via man with a plan, avviene proprio negli anni dei totalitarismi classici, a cavallo tra le due guerre mondiali. Forse non è neppure un caso se nell’immaginario di una intuitiva scrittrice fascista come Ayn Rand, il vero rappresentante d’avanguardia dei tempi era il classico architetto urbanista (cinematograficamente noto con la faccia di Gary Cooper) di Fountainhead, del genere che scimmiottando un po’ i manifesti originali delle avanguardie guarda giù dal balcone, e zac! gli scatta l’idea che lascerà il mondo a bocca aperta.

Video killed the archistar

Sappiamo poi come sono andate a finire, quelle fulminanti intuizioni, che sarebbero andate benissimo mediate da qualche delega di cui sopra, ma ai tempi non se ne sentiva in genere un gran bisogno, e per acclamazione si partiva in tromba: fra autostrade rombanti, cubottoni residenzial-pigliatutto, posati dentro un’idea di verde mutuata principalmente sul tavolo da biliardo, più che nei pascoli o boschi. I sopravvissuti però hanno dalla loro parte il senno di poi, e provano ad aggiustare il tiro, ad esempio applicando al medesimo tema qualcosa di un po’ più strutturato dell’intuizione di Gary Cooper che scruta dal balcone slacciandosi nervoso il papillon. La logica è la stessa di sempre: le cose si devono fare e pensare inoltre, e non invece. L’idea di urbanistica del terzo millennio, anche alla luce dei guai lasciati da quella solo intuitiva degli avanguardisti, può e deve giovarsi del metodo scientifico, senza certi balzi temerari. Buoni ultimi ad aver intrapreso questa via, gli intelligenti contabili della London School of Economics, che per conto di altrettanto prestigioso organismo internazionale hanno intrapreso la ricerca comparata sullo slogan delle 3C. Niente paura, non sono esseri alieni o stampanti tridimensionali da elettricista, ma semplicemente le tre iniziali di Compact, Connected, Coordinated. Ovvero le tre caratteristiche base che dovrebbe assumere un insediamento metropolitano per unire organicamente ricchezza, sostenibilità, sviluppo sociale equo. Con una specifica, assai scientifica e a modo suo pure intuitiva: le tre cose non vanno ognuna per conto suo in stile liberista, ma si tengono, ovvero se non ce n’è a sufficienza dell’una non funzionerà quell’altra, e viceversa.

Il terzo incomodo si accomoda

Le conclusioni spaziali, tecnologiche, organizzative di questa panoramica scientifica globale (su un campione di alcune centinaia di varie aggregazioni urbane e metropolitane sparse per il pianeta) puntano tutte verso cose che già conosciamo: meno consumo di risorse naturali, contenitore/territorio in testa, più uso intelligente delle tecnologie, specie nei trasporti e comunicazioni, maggiore partecipazione e inclusione. Qui sembrerebbe però cascare l’asino, almeno se proviamo a dare retta a un’altra ricerca sistematica appena pubblicata dalla prestigiosa Town Planning Review, dove si ribadisce ciò che era già a suo modo noto: se la forma urbana condiziona la società e gli individui, allo stesso modo essi sono il maggior fattore di trasformazione o conservazione di tali forme. E torniamo all’inizio, al famoso The Man With A Plan, che sapeva trascinare per esempio tutti i nimbies verso qualcosa di un pochino meno squallido della pietrificazione o peggio di uno spazio vivo. Ovvero: come si concilia il lungo processo inclusivo con quello necessariamente più rapido delle decisioni? Forse non prendendone affatto, almeno di efficaci e medio termine? Oppure affidandosi agli apprendisti stregoni della ricerca di consenso a mani basse, quelli che trasformano tutto in slogan, agendo in pratica come portavoce del dittatore? Un tema del tutto aperto, su cui vale certamente la pena di riflettere, ad esempio comparando i due studi LSE e TPR che allego di seguito, come ho provato a fare brevemente io in questa nota.

Riferimenti:

Graham Floater, Philipp Rode et. al., Cities and the new climate economy: the transformative role of global urban growth, London School of Economics, novembre 2014

Leah Perrin, Jill L. Grant, Perspectives on mixing housing types in the suburbs, The Town Planning Review, vol. 85, n. 3, 2014

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