A quelli della Bre.Be.Mi. lo spiegate voi?

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Foto F. Bottini

C’è una cosa che si chiama dismissione, e che conosciamo un po’ tutti. Il processo riguarda tipicamente l’insediamento industriale, sia per evoluzioni tecnologiche interne al settore, sia per grandi mutamenti sociali, politici, organizzativi estesi ben oltre l’ambito specifico. Accade che non risulti più economico o praticabile svolgere determinate attività in determinati spazi o contesti, e nonostante tutti i tentativi di adattamento si sia obbligati a dichiarare forfait e a chiudere bottega: vuoi trasferendo altrove l’attività (il caso più comune), vuoi consegnandola alla storia e ai musei. La dismissione più nota al grande pubblico, pur non essendo affatto l’unica, è quella dei grandi impianti industriali, che mescola da sempre fattori ambientali, territoriali, sociali, tecnologici, in un processo di decentramento-delocalizzazione-dismissione. È accaduto coi primissimi stabilimenti industriali, che cercavano nelle periferie urbane spazio adeguato a macchinari e movimento di manodopera, poi soprattutto nel XX secolo col sorgere di nuclei decentrati programmati ad hoc per quel genere di sviluppo, e infine coi più recenti processi di globalizzazione, che per i territori locali si traduce in una vera e propria scomparsa della produzione industriale, che lascia vuoti da colmare. E non è mai facile farlo.

Rammendi visibili

Si parla di dismissione e delocalizzazione industriale perché si tratta del processo storico più noto ed evidente, nonché di quello con gli impatti sociali (occupazionali e non solo), ambientali, territoriali, politici, più vistosi. Ma il processo di dismissione in forme più o meno striscianti interessa tanti altri contenitori territoriali, per esempio i centri storici interessati dalla terziarizzazione e poi in certi loro ambiti di pregio architettonico dalla gentrification, o gli spazi dell’agricoltura tradizionale abbandonati e riconvertiti a varie funzioni, spesso ahimè senza troppo pensarci sopra malamente urbanizzati, o destinati a forme produttive di agro-industria. Uno dei caratteri essenziali della dismissione vera e propria, però, è la relativa imprevedibilità: si arriva alla crisi del modello e a tutte le sue ripercussioni negative, perché è impossibile prevedere quelle evoluzioni tecnologiche e organizzative che lo determineranno: il telefono o la ferrovia che consentono di allargare infinitamente le distanze del luogo di trasformazione da quelli delle materie prime e delle decisioni strategiche, o la rivoluzione politica che mette in crisi tutti gli equilibri e le gerarchie su cui si sosteneva il modello produttivo. Tutte queste cose sono imprevedibili, e il «decollo» relativamente improvviso dell’attività dal territorio lascia vuoti che certo verranno riempiti, ma in modo indebito, sicuramente inadeguato, perché non c’è stata programmazione, non si poteva programmare.

Il museo della storia accanto

Si diceva poco sopra, di «consegnare alla storia» un’attività obsoleta, considerando scontato ciò che scontato non è affatto, ovvero che esistono spesso altri luoghi che attraversano fasi storiche diverse, e dove quell’impianto, praticamente identico, può riprodursi e continuare a prosperare a suo modo. A parte le considerazioni sociali e ambientali che ciò solleva se guardiamo a contesti più arretrati rispetto al nostro, proviamo a guardare invece nell’altra direzione, ovvero verso chi esporta a casa nostra modelli che non considera ormai più adeguati a sé: lo sprawl territoriale o dispersione urbana come paradigma di crescita economica, ad esempio, specie nella forma sistemica soprannominata a suo tempo technoburb, e che si compone di residenza, servizi, attività terziarie e terziario-superiori, il tutto connesso da reti di verde e autostrade. Dove completano con un ruolo marginale il tutto, le città consolidate, le loro downtown rappresentative o centri storici, le attività produttive leggere residue. Si tratta, né più né meno, del modello urbano-suburbano principe in questa fase dello sviluppo italiano, in particolare padano perché lì si vede nella forma più avanzata, ma non solo. Ha come simbolo e monumento l’office park, magari progettato da una firma famosa internazionalmente come il complesso suburbano della Mondadori nell’area metropolitana milanese, di Oscar Niemeyer. Ma guardando alla storia, e guardandola con gli occhi rivolti all’Occidente, risulta difficile non notare le grosse crepe che si aprono di continuo, in quel modello, ben evidenziate dalla dovizia di studi tecnico scientifici. Come quello americano allegato, dove si calcolano in decine di milioni i metri quadri di parchi uffici suburbani ufficialmente obsoleti, ovvero in pratica dismessi prima ancora di entrare in funzione, e che necessitano di un urgente programma di imperfetto riuso. E qui si pone la domanda: davvero il modello socioeconomico territoriale proposto dai sostenitori della Bre.Be.Mi. e di tutte le sue cugine e cuginette autostradali, lo sprawl spacciato come post-modernità immersa nel verde, ha senso? Oppure stiamo costruendo un enorme capannone destinato in brevissimo tempo a restare vuoto, impattante, pericoloso per noi e per l’ambiente? Riflettiamoci seriamente.

Riferimenti:
NGKF, Suburban Offices Obsolescence, rapporto dicembre 2015 (scarica direttamente il pdf dello studio)

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