Cent’anni di solitudine dentro un abitacolo

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Foto J. B. Hunter

Capita ancora, anzi in pratica capita ogni minuto o due, di incrociare qualche esemplare di schizofrenico o schizofrenica (qui la parità di genere è un sacro diritto acquisito) del terzo millennio. Mi riferisco al genere di atteggiamento che da un lato invoca non meglio precisati “nuovi paradigmi” per superare la crisi, che sia economica, ambientale, sociale, di rappresentanza, dall’altro nei comportamenti concreti e nelle aspettative pratiche pare auspicare invece con forza una ripresa a pieno ritmo del business as usual. Fino alle reazioni piccate, a volte addirittura non prive di una certa aggressività verbale, quando si prova a dare nome e cognome alle tessere di questo mosaico neoparadigmatico, ai corrispondenti comportamenti e indispensabili trasformazioni di sistema. Di norma qui trionfa il cosiddetto benaltrismo, del tipo: si, certo, magari non è del tutto sbagliato che la produzione di carne per il mercato sia uno dei grandi fattori di cambiamento climatico, ma non chiedermi di cambiare abitudini, altrimenti ti stacco un dito con un morso! Lo stesso vale per quel feticcio novecentesco rappresentato dall’automobile, specie tra i sedicenti ecologisti così amanti della natura che ci si sono spaparanzati sopra con parecchie tonnellate di mattoni. Che non solo non possono essere definite tali, dato che si chiamano invece “casa” (il cemento nei giudizi insindacabili dei diretti interessati pare stia sempre da un’altra parte), ma vanno prese in blocco anche con gli ettolitri di carburante che si consumano per andare e venire da lì, a fare tutto, perché nelle vicinanze non c’è niente.

Stili di vita

Allora, proviamo a riassumere, visto che chiedono un nuovo paradigma, di cos’è fatto quello vecchio scendendo nei particolari, anche in modo piuttosto rudimentale e lacunoso. Lo stile di vita per esempio, che si vede e si tocca a differenza delle categorie dello spirito: si vive in un posto principale che è la casa, e per fare altre cose si va provvisoriamente in altri posti, diciamo altre case per semplificare al massimo. Questa case stanno appoggiate sul territorio, e lo usano come base ahimè sottraendolo ad altre funzioni, ad esempio quella di produrre alimenti, senza in quali non c’è vita né relativo stile di vita. Ci sono fondamentalmente due modi di appoggiare i mucchi di mattoni detti case sul territorio: quello urbano e quello cosiddetto immerso nel verde a contatto con la natura. Notoriamente quello urbano, mettendo ad esempio gli alloggi e i servizi anche uno sopra l’altro, di spazio ne consuma un po’ meno, a volte parecchio meno. E non è finita, perché servono anche meno spazio per le strade, e meno benzina per le auto, dato che andare in un posto in città può anche voler dire andare in dieci posti: stanno uno sopra l’altro, basta imboccare le scale o salire in ascensore, niente benzina da consumare o nuovi parcheggi da asfaltare! Ecco qui una fettina di paradigma insomma.

Tempi della storia

Ma, come ci insegna l’esperienza, il nostro integralista neoparadigmatico ci risponderà con inevitabile sorrisetto di compatimento che il problema è un altro. E ci ha pure un po’ ragione, perché notoriamente il mondo non cambia solo per via delle piccole scelte personali, ma anche per via di altre scelte personali affatto piccole, che sono quelle degli strateghi di impresa, di mercato, delle grandi decisioni insomma. Come ci ricorderà se ne ha voglia il nostro interlocutore, ad esempio, la questione dei suoi consumi automobilistici allargati dipende anche dalle evoluzioni tecnologiche, dalla conversione dei carburanti (non tocchiamo misericordiosamente qui gli agro-carburanti, per carità), dai modelli elettrici, da altre diavolerie come la macchina senza autista eccetera. Anche qui, ci insegnano ormai estese letture disponibili, non è che l’organizzazione del territorio e dei relativi stili di vita non cambierebbe le cose anzi. Pensiamo alla facilità di attrezzare un’area urbana densa con tutte le infrastrutture immateriali necessarie alla driverless car o coi terminali indispensabili per le ricariche di veicoli elettrici, o infine a quanto più produttivi e innovativi potrebbero essere quei veicoli se gestiti in una logica di urbano car-sharing anziché col classico modello proprietario dei villettari convinti. Ma ci vuole tempo e a quanto pare di tempo (almeno dal punto di vista sociale, economico, tecnologico) ne abbiamo a sufficienza.

Il picco automobilistico

Abbiamo tempo, e ci evitiamo di litigare per forza con l’interlocutore cocciutamente neoparadigmatico, perché pare che nonostante tutto il tramonto color automobile sarà lento, per non dire lentissimo. E dunque anche l’adeguamento territoriale non potrà che procedere più o meno con modi e tempi simili. La fonte delle previsioni è piuttosto insospettabile, ovvero uno studio riservato per conto del settore automobilistico, sulle tendenze a usarla, l’automobile, prima durante e dopo la recessione economica. Riassumendo al massimo: la generazione nata nel secondo dopoguerra l’auto la usava sempre di più, mentre quella ultima nata la usa sempre di meno, e ci si mettono di mezzo altri fattori condizionanti, dai soliti stili di vita più suburbani per i vecchi e più urbani per i giovani, all’ubiqua crisi economica che questi stili parecchio condiziona. Ma sbaglia anche chi pensa a una fine, prima o poi, sia della crisi che del calo di consumi automobilistici: il picco pare sia stato raggiunto, e il calo è strutturale. Si diventa insomma sempre più urbani, sempre più pedoni, sempre più utenti di biciclette, negozi di prossimità, alloggi piccoli e spazi pubblici. I tizi neoparadigmatici immersi nel verde perché il problema è un altro, però, possono stare abbastanza tranquilli, perché come calcolano gli analisti ci vorrà tempo. Restano stronzi in malafede comunque, per inciso.

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