Il bastone dei mezzi e la carota dei fini nella mobilità dolce

Un classico della confusione totale tra mezzi e fini si trova facilmente nella cosiddetta «limitazione del traffico» sin dai suoi albori. Per capire il senso di queste limitazioni occorre appunto chiarirne gli obiettivi di medio-lungo periodo, e si tratta di obiettivi sociali più che puramente spaziali (anche l’organizzazione dello spazio in fondo è un mezzo): si tratta di costituire isole orgogliosamente chiuse e segregate di monopolio sostanzialmente antistorico e con l’idea di ampliarsi all’infinito, oppure di conseguire veri miglioramenti complessivi del metabolismo e della qualità del flusso urbano? Proviamo a ricostruire brevissimamente la storia d’amore novecentesca tra la città moderna e l’automobile, e ci accorgeremo che si tratta di una vicenda tutta improntata alla prima opzione: incistarsi per dilagare. La carrozza senza cavalli si ritrova infatti di fronte in un primo tempo solo gli spazi concessi all’assai più ingombrante veicolo tirato da animali, ma non prova neppure a adattarsi, salvo nei primissimi sperimentali tempi. Spinge molto velocemente per asfaltature prima, e per dismissione e riconversione poi delle stalle, dei cortili, dei marciapiedi, delle piazze, delle cantine. Fino ad arrivare negli anni ’30 del XX secolo a quella formulazione totalitaria di Magic Motorways, la sceneggiatura del corto Futurama finanziata dalla General Motors, dove si affida a un designer-vetrinista come Norman Bel Geddes il compito di ridisegnare l’intero orbe terracqueo attorno al veicolo privato e alla famiglia nucleare che lo occupa.

Incistamenti

Non è un caso se proprio contemporaneamente all’affermarsi esplicito di questa «filosofia dell’automobile dilagante» l’autorità suprema dell’architettura individualista-familista introversa, Frank Lloyd Wright, ne fornisce una sua elegantissima utopica interpretazione con il modello di Broadacre, di cui tutti paiono plaudire le forme esterne ma ignorare il modello sociale sotteso, paranoico e autoritario, che fa sostanzialmente a cazzotti con la cultura progressista del Bauhaus contemporaneamente celebrata da tutti quanti, forse altrettanto inconsapevolmente. Inutile ricordare che le politiche di pedonalizzazione delle aree centrali urbane nascono poi, nel dopoguerra e sino ai nostri giorni, proprio come reazione di autodifesa da quel dilagare, che è culturale prima ancora che fisico: l’indispensabilità del veicolo privato in una società industriale a crescita infinita basata sui consumi della famiglia nucleare tendenzialmente suburbana. E quindi, per essere consequenziali, dovremmo domandarci cosa vogliamo, delimitando quelle isole, e poi aggiungendoci in tempi più recenti il sacro feticcio della bicicletta, a suo tempo sconfitta sul campo proprio dall’auto meccanica, che garantiva maggiore aderenza al modello sociale economico e trasportistico sotteso. A piedi non si va lontano e non si trasportano pesi, sulla bicicletta non ci sta una intera famiglia, e ancora non si fanno certo centinaia di chilometri, e quindi: cosa vogliamo da quegli spazi, in termini funzionali generali? Devono diventare cosa, esattamente? Si spera non un incistamento, una Alamo della Pre-modernità assediata dal Progresso. O peggio, una sacca di privilegio con attorno un riconosciuto degrado che però ne santifica il senso, esattamente come avveniva con la casa nella prateria nido della famiglia nucleare.

Flussi complessi

E allora torniamo a porci la domanda iniziale alla luce di questa medio lunga premessa: che modello di città-società ha in mente, magari addirittura a propria insaputa, chi sostiene il dilagare del ciclismo a partire dalle nicchie della pista dedicata e segregata, o delle zone a traffico veicolare totalmente precluso? Forse non ci ha proprio pensato, a quella centralità del modello familiare (e gerarchico-autoritario) insita nel mondo dell’auto, della casetta con giardino di cui l’appartamento di città è sempre una impropria imitazione, del centro commerciale pigliatutto. Quindi sarebbe meglio chiedersi invece a quale modello di flussi urbani pervasivi e aperti si potrebbe teoricamente mirare, allargando lo spazio per la pedonalità e la ciclabilità. Lasciando così che le occasioni per un progresso sociale coerente possano essere colte e sviluppate in modo adeguato: una sicurezza stradale non più affidata alle sole barriere, una organizzazione dello spazio e del tempo meno caratterizzata dagli ingranaggi della macchina produttiva così come era quella delle avanguardie storiche e del Bauhaus (dentro cui galleggiano ancora i quartieri moderni non a caso di stampo automobilistico). Questi sono obiettivi degni, e il ritagliare superfici all’uso esclusivo non veicolare solo uno strumento per conseguirli, non certo uno scopo a sé stante. Solo miopi retrogradi lobbisti possono «sognare la città delle biciclette»: vogliamo assomigliare tutti a questi rimbecilliti? Speriamo di no.

Riferimenti:

Kieran Smith, Free bikes to steering wheel spikes: ways to boost urban cycling, The Guardian, 10 gennaio 2019
Immagine di copertina da The Illustrated Bicycle Primer, 1881

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