Immigrazione e ingenuità paesomani sul territorio

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Foto F. Bottini

Pochi giorni fa alcuni intellettuali sono intervenuti a proposito della ennesima «emergenza immigrazione» che puntuale ci travolge appena calano un pochino le onde nel Mediterraneo, con una proposta che apparentemente si inserisce nel grande filone della ripresa delle strategie pubbliche di intervento su settori economici sociali e ambientali. L’idea in sintesi estrema è quella di una riforma agraria, «un piano complessivo di rinascita delle terre incolte e dei paesi abbandonati che avrebbe, fra l’altro, un benefico effetto sulla prevenzione degli incendi e del dissesto idrogeologico». Forse pensando alle storie incredibili di sfruttamento dei braccianti immigrati nel nostro Sud, ma forse con un occhio di riguardo anche a certe teorie della cosiddetta «paesologia» quanto a recupero di borghi e territori desertificati da emigrazione e industrializzazione del paese, nonché al dibattito su alimentazione, consumi, chilometro zero, contenimento del consumo di suolo con un rilancio del settore agricolo, gli intellettuali progressisti delineano un grande piano nazionale. Che però ahimè in quanto tale pare nascere con qualche generazione di ritardo.

Schegge storiche di disurbanizzazione

In principio era l’automobilismo di massa, e in generale il forte ridimensionarsi del fattore distanza di fronte all’imponente sviluppo dei trasporti e delle comunicazioni. Erano gli anni ’30 del secolo scorso, e in ogni parte del pianeta democrazie e dittature in contemporanea si lanciavano nei loro programmi di decentramento, che si chiamassero Resettlement Administration su un lato dell’oceano, o Bonifica Integrale sull’altro. In ogni caso, si trattava né più né meno di un grande rilancio a spinta pubblica dei movimenti ottocenteschi di ritorno alla terra, anti-latifondisti ma anche anti-urbani, col loro strascico culturale assai importante che comprende un po’ di tutto, dal cottage con giardino chiavi in mano del primo Frederick Law Olmsted, all’architettura vernacolare dell’originario Raymond Unwin, passando per le satire di costume dei Tre Uomini in Barca di Jerome, coi tre fantozziani impiegati della City alla riscoperta di una natura ormai esistente solo nel loro cervello un po’ nevrotico. Le successive ondate novecentesche di decentramento pianificato, specie nella seconda metà del secolo, si sono prevalentemente caratterizzate per la loro natura urbano-industriale, o meglio suburbano-industriale, e qui ahimè casca l’asino, almeno rispetto alla proposta di riforma agraria immigratocentrica di cui sopra.

Due immaginari in conflitto

La cosiddetta urbanizzazione planetaria, come si ripete fino alla noia e oltre, riguarda prima di tutto aspettative, consumi, immaginario collettivo, e poi naturalmente anche il condensarsi più o meno fitto di popolazione in determinati luoghi dove sviluppare tali aspirazioni. Nulla in contrario, ovviamente all’idea che in qualche caso possa esistere uno straccio di borgo che sarebbe effettivamente intelligente riusare, insieme ai territori agricoli circostanti, e che parallelamente esistano gruppi di immigrati ben felici di dedicarsi, col sostegno di politiche pubbliche o cooperative, alla produzione biologica, a chilometro zero e compagnia bella. Ma da qui a immaginarsi che improvvisamente l’umanità cambi verso, cambi aspirazioni, solo per soddisfare la moda nostalgica della cosiddetta «paesologia» (che pare soprattutto un vezzo estetizzante elitario), ce ne passa parecchio. Senza scordarsi il particolare, storicamente fondato e lì da vedere coi nostri occhi, di come sono andate a finire le antiche politiche ruraliste di decentramento. La stessa parola sprawl fu coniata proprio negli anni ’30 da un pianificatore territoriale che vedeva il confuso mescolarsi della residenza e dei servizi al classico appoderamento rurale, con grave danno per entrambi. Il crollo della quota di occupazione agricola a fronte di un impennarsi della produttività per unità di superficie ha fatto il resto, e oggi gran parte di quegli ex territori di decentramento altro non sono che (salvo casi sporadici) dispersione urbana, a bassa o bassissima densità. Se poi appunto, dietro al «grande piano nazionale» stava il finanziamento a un paio di cooperative amiche, almeno diciamocelo, no?

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